Musica, teatro e arti visive al Festival NU Arts and Community di Novara
Si è da poco conclusa la terza edizione del festival che unisce musica, teatro, arti visive e danza contemporanea. Fra eventi spettacolari e progetti un po' meno convincenti, ecco il reportage di una rassegna coraggiosa che continua a credere nell’importanza del fare cultura in Italia
Se si dovessero scegliere un paio di caratteristiche in grado di descrivere il festival NU Arts and Community, il coraggio e la passione sarebbero sicuramente quelle più esemplificative, dal momento che non è da tutti dare il via a una manifestazione artistica nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria globale – come è avvenuto nell’autunno del 2020 con il lancio della prima edizione – continuando a puntare, negli anni successivi, sulle risorse di una città/terra di mezzo come Novara. Una tenacia, quella dimostrata dalla direttrice artistica Ricciarda Belgiojoso insieme ai membri dell’Associazione Culturale Rest-Art, che ha addirittura portato al compimento di un piccolo miracolo invitando in una cittadina addobbata di bandiere tricolori, e trepidante per l’ultimo raduno degli Alpini, un personaggio a dir poco singolare come il cantante siriano Omar Souleyman (Tell Tamar, 1966).
Ma procediamo con ordine.
LA TERZA EDIZIONE DEL FESTIVAL NU ARTS AND COMMUNITY
Inaugurata lo scorso 28 settembre nella cornice di Casa Bossi e del Salone dell’Arengo per poi snodarsi in diversi luoghi emblematici di Novara, la terza edizione della rassegna multidisciplinare è partita alla riscoperta dei grandi classici del cinema muto attraverso due appuntamenti pensati per l’occasione. Dopo una prima parentesi nel cortile di Casa Bossi con la performance Audio Video Remix the Cinema – in cui le rivisitazioni non troppo originali di pietre miliari quali Il sangue di un poeta di Jean Cocteau o Il gabinetto del Dottor Caligari di Robert Wiene hanno ritardato il decollo effettivo della serata –, si è ufficialmente dato il la al debutto del festival con un evento dalle aspettative positivamente raggiunte. Magistralmente condotta dal suo fondatore, il compositore trevigiano Filippo Perocco, L’Arsenale Ensemble si è infatti esibita nel Salone dell’Arengo con l’intento di “riportare in vita” il Nosferatu di Murnau, recentemente restaurato dalla Cineteca di Bologna per il suo centenario. Grazie a una sonorizzazione dal vivo eseguita dai membri del complesso nostrano, si ha avuto così modo di assistere a un’interpretazione altamente suggestiva che, in gran parte merito del soprano Livia Rado, ben si è adattata alle immagini del capolavoro espressionista. Fra suoni onirici e ipnotici, generati tanto da piano e fisarmonica quanto da chitarre e disparati strumenti analogici, è stato possibile assistere a uno spettacolo da brividi che, sposandosi a pieno con l’estetica gotica del luogo, ha restituito allo spettatore un soddisfacente senso di completezza.
LE PERPLESSITÀ: LA MOSTRA DI INVERNIZZI E LO SPETTACOLO DI INSTABILI VAGANTI
Una sensazione di appagamento, quella provata nella giornata inaugurale, che purtroppo non è emersa durante gli appuntamenti di giovedì 29, ovvero l’opening della mostra personale di Stefano Invernizzi (Novara, 1983), Electricity, e la pièce teatrale Lockdown Memory della compagnia Instabili Vaganti.
Curata da Marco Tagliafierro, e presentata nella sede di Rest-Art, l’esposizione del pittore piemontese – visitabile fino al 29 ottobre – si compone di una selezione di dieci dipinti nei quali il suo peculiare stile “Super Realista” (così definito dallo stesso curatore) denota la presenza di un universo immaginifico nel quale soggetti e contesti ambigui fanno del paradosso la chiave di volta dell’intero progetto. Nonostante l’indiscutibile padronanza tecnica dell’artista, l’impronta figurativa e fotografica dei lavori è però fin troppo esplicita, così tanto da sapere di didascalico e anacronistico: una percezione confermata anche da un allestimento abbastanza “sporco” e poco stimolante. Seppure si tratti di qualcosa di completamente diverso, un certo senso di superficialità si è sfortunatamente palesato anche durante Lockdown Memory, l’opera concepita da Anna Dora Dorno (Taranto, 1976) e Nicola Pianzola (Novara, 1976). Incentrata sull’analisi dei disagi e delle molteplici contraddizioni manifestatesi durante tutto il periodo pandemico, la rappresentazione ha donato allo spettatore un groviglio troppo frettoloso – e spesso retorico – di narrazioni parallele talmente delicate da meritare un approfondimento maggiore: dal racconto di vicende come l’arrivo di Donald Trump in una India dilaniata dal Covid o la nascita del movimento Black Lives Matter, sono stati numerosi i momenti in cui il sospetto di trovarsi dinanzi a un confusionario pot-pourri fine a se stesso ha leggermente offuscato, se non addirittura banalizzato, l’indubbio talento performativo dei due autori.
FRA DANZA, MUSICA E ARTI VISIVE
Nonostante qualche piccolissima caduta di stile, il festival ha comunque dimostrato di sapersi rialzare in fretta, offrendo iniziative e progetti di qualità particolarmente attenti alla sfera del sociale e, più propriamente, al coinvolgimento degli abitanti dello stesso territorio. Fra questi non si possono non menzionare la proiezione di Stato di Grazia (l’opera video di Francesca Cola che si è avvalsa della collaborazione con l’associazione di promozione sociale Oltre le Quinte per tramutare concretamente il concetto di disabilità in una risorsa) e il laboratorio di movimento – ad alto tasso di empatia – che l’artista performer Irene Russolillo (Cerignola, 1982) ha condotto all’interno dello Spazio Nòva insieme a un gruppo di arzilli ospiti della Casa di Giorno per Anziani Don Aldo Mercoli. Proprio Russolillo è stata inoltre invitata a confrontarsi con l’ex Chiesa di Sant’Agostino per mettere in scena Dov’è più profondo, uno spettacolo stratificato fatto di coreografie evocative, tappeti sonori a cura del producer verbanese Edoardo Sansonne e canti che fondono la tradizione valser con il dialetto cerignolano. Una performance scandita da più atti, tenuti insieme da un filo conduttore che scala vette altissime per raccontare della natura lenitiva del cantare: una pratica necessaria per poter sopravvivere all’impervia condizione del lavoro tra i monti.
Così come è stato per lo spettacolo dei due performer, la musica ha funto da collante significativo anche per tutta la rassegna che, proprio grazie a questa disciplina, ha dato il meglio di sé. A sostenere una tesi simile sono stati, infatti, i diversi concerti che, soprattutto nelle ultime due giornate della rassegna, si sono susseguiti destando molta curiosità e in certi casi anche meraviglia. Sono questi i casi delle esibizioni del fisarmonicista moldavo Ghenadie Rotari (memorabili le esecuzioni dei brani Flora’s game, di Astor Piazzolla, e Il nero inghiottirà il rosso composto da Daniela Terranova sotto l’influenza della pittura di Mark Rothko) e dell’enfant prodige Sofia Donato che, tenutisi rispettivamente presso la Canonica del Duomo di Novara e il cortile del Museo di Storia Naturale Faraggiana Ferrandi, ben si sono distaccati dalle sonorità più contemporanee di altri ospiti quali Joan Thiele, Ginevra Nervi e il duo sperimentale Babau.
LE CARTE VINCENTI DEL FESTIVAL
Un trait d’union unico, quello della musica, che è riuscito a connettere in maniera armoniosa l’eterogeneità di tutte le proposte offerte dalla rassegna, inclusa la performance di Elisabetta Consonni, Il Paradosso di Zenone, messa in atto con tanto di trombettista al seguito. Un elemento indispensabile che ha consentito sia di abbattere confini etnici e geografici, come ha ben dimostrato l’incontenibile e più che partecipata unica data italiana di Omar Souleyman, sia di rendere piacevolmente fruibile un lavoro monumentale come il film del 2020 As I was moving ahead occasionally I saw brief glimpses of beauty di Jonas Mekas. Introdotto da Andrea Lissoni, e accompagnato da una colonna sonora costante, il film parte dai primi Anni Settanta per attraversare circa trent’anni della vita privata del compianto artista lituano che, tra una pellicola Super8 e l’altra, invita lo spettatore a riflettere sul senso delle immagini, su valori come l’amicizia o la famiglia e infine sul significato ultimo dell’esistenza stessa.
A chiudere in bellezza NU Arts and Commuity è stato il debutto di Romeo e Giulietta. Opera ibrida, la rivisitazione in chiave più che contemporanea del capolavoro di William Shakespeare. Attraverso un inaspettato mix tra recitazione dal vivo e incursioni multimediali, i bravissimi componenti della compagnia Cabiria Teatro sono riusciti a rendere concreto un progetto decisamente ambizioso, creando interazioni accattivanti tanto con le nuove tecnologie quanto con le architetture di Alessandro Antonelli (Casa Bossi e la Cupola di San Gaudenzio), nonché con il pubblico stesso, invitandolo per esempio a decidere dai propri smartphone – tramite riprese streammate in tempo reale – se seguire i dinamici colpi di scena dell’uno o dell’altro protagonista. Un’opera per nulla scontata che, fra momenti ironici e altri specificamente drammatici (in quanto tremendamente veri e attuali), è riuscita a parlare di tematiche per nulla facili come il cyberbullismo, i disturbi alimentari o il bodyshaming, che sempre più affliggono l’odierno universo adolescenziale, rivelando una responsabilità che non risparmia nessuno, in particolar modo le figure genitoriali.
Valerio Veneruso
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