Il magro spettacolo. Gli italiani e i loro consumi culturali
Analizziamo i dati raccolti da Federculture sui consumi nel settore culturale del nostro Paese. Gli spettacoli fanno ancora fatica, ma come si può migliorare?
La cultura è in ripresa. Questa la sintesi adottata per presentare l’annuale rapporto di Federculture che intende analizzare il settore culturale e i consumi degli italiani. Malgrado ci siano alcune riflessioni metodologiche che meriterebbero un approfondimento, il rapporto ha dalla sua una certa stabilità, condizione che quantomeno agevola un confronto pluriennale di cui senza dubbio l’Italia della cultura ha bisogno. Tra le varie riflessioni condotte all’interno del report, c’è un dato che meriterebbe un’attenzione particolare: l’andamento pluriennale della partecipazione culturale suddivisa per categoria di fruizione.
La crisi del settore dello spettacolo
Come visibile dal grafico su base Istat, ci sono alcuni settori che, evidentemente, presentano, rispetto al periodo pre-Covid, una ripresa ancora in negativo: primo tra tutti il cinema, seguito da teatro, e concerti di musica classica. Eccezion fatta per la categoria altri concerti (che anzi è cresciuta rispetto al pre-Covid) il settore dello spettacolo è evidentemente in un periodo delicato, che merita senza dubbio un po’ di attenzione. Nel 2022, ad esempio, la spesa per il “calcio” è stata di circa 381 milioni di euro (dati SIAE) simile alla spesa che nel 2022 è stata registrata per Teatro Prosa, Teatro Lirica, Rivista e Musical, Balletto, Burattini e Marionette, Arte Varia e Concerti Jazz messi insieme. La spesa per il calcio ha superato anche la spesa per il cinema (333 milioni), come ha superato la spesa per i parchi tematici (anch’essi 333 milioni circa). Più del calcio, soltanto la categoria Discoteche e Ballo, con i suoi 410 milioni di spesa associata. Perché questi dati sono importanti? Perché raccontano un’Italia che non assiste a spettacoli, malgrado la narrazione delle fruizioni culturali ambisca oggi a trasmettere un’immagine di un Paese sempre in coda per entrare nei musei. A tal riguardo, le mostre, nel 2022, hanno registrato una spesa di 101 milioni.
Quanta priorità ha la cultura?
Su questo punto, ci sono alcune considerazioni da fare: la prima è capire se realmente sia importante invertire questa tendenza, e quindi favorire una sempre più folta e frequente partecipazione a spettacoli culturali. Perché la cultura non è un dogma, è una scelta. Se si decide di vedere la cultura come un elemento che è centrale nella vita degli esseri umani, più di quanto possa esserlo un’altra categoria di consumi, allora è il caso di chiedersi come favorire dunque un ritorno alle sale, o agli spettacoli teatrali, alla musica colta o ai balletti. Assumendo un atteggiamento forse un po’ rude, la questione si divide subito in due: domanda e offerta, il che significa decidere se è prioritario concentrare la riflessione su coloro che a teatro non ci vanno, o su coloro che invece producono e distribuiscono spettacoli o gestiscono gli spazi in cui tali spettacoli vengono erogati al poco folto pubblico.
Gli incentivi non sono la soluzione
Le dinamiche di incentivo della domanda non sono state sufficienti: nel 2022, ad esempio, era ancora in vigore la 18app, che offriva 500€ ai neo-maggiorenni per consumi culturali (teatro incluso). Certo, una politica che incentivi le persone ad andare a teatro può essere importante, ma limitarsi a dare loro dei soldini da spendere in questo modo non basta. È evidente. E questo ci conduce all’offerta che, come detto, si divide in “spettacoli” e “sale”. Sugli spettacoli la questione è molto delicata: la qualità di molti spettacoli è effettivamente migliorabile, ma questo è in parte derivante dall’assenza di spesa (minori ricavi impongono minori investimenti, così come minori ricavi impongono una minore diffusione di spettacoli, e questo inficia il clima culturale in senso stretto). Soprattutto, la diffusione di spettacoli anche brutti può in qualche modo essere un riflesso di una diversità espressiva che comunque è una dimensione essenziale per l’emersione di idee e prodotti. E c’è infine la dimensione delle “sale”. Che rappresentano probabilmente la componente cui dedicare la maggior parte degli interventi.
Le sale e la produzione di valore
Dal punto di vista logistico, infatti, la “sala” è come un “negozio”: è lo step finale della catena di creazione del valore che si pone come punto di congiunzione tra il lato dell’offerta e quello della domanda. Sono i “negozi” a stimolare i consumi: la presenza di un esercizio di prossimità autonomo (non legato a catene o affini) dedicato esclusivamente agli articoli per la casa, favorisce l’incremento della diversificazione dei prodotti, e la possibilità per i cittadini di poter soddisfare delle proprie esigenze (un bagnoschiuma ad una fragranza particolare, o un particolare prodotto per la casa). Un negozio di fiducia è un punto di riferimento per la collettività: sapere che in città c’è un luogo in cui comprare cappotti di qualità può rendere più semplice l’acquisto. Infine, i negozi arricchiscono l’intero processo di scelta, trasformando un acquisto in una particolare tipologia di esperienza. È su questo tipo di concetto che si è incentrata l’intera ricerca in termini di store-management degli ultimi 30 o 40 anni: musica alta e luci basse per i negozi di abbigliamento per teen-ager; spazi aperti e luminosi per l’acquisto di gadget tecnologici di lusso, e via discorrendo.
L’evoluzione dei negozi e il prodotto come esperienza
Se si guarda all’intera gamma di piccole e grandi innovazioni che hanno caratterizzato i negozi negli ultimi cento anni (dal percorso di acquisto degli autogrill alle mattonelle piccole dei supermercati, che hanno l’obiettivo di rendere il carrello più rumoroso con lo scopo di far fermare più frequentemente le persone), è evidente che il mondo dei “negozi di spettacolo”, nel frattempo, non ha raccolto la stessa spinta innovativa. La struttura dei “negozi” (e questo vale tanto per i teatri quanto per i cinema), è rimasta tendenzialmente la stessa, così come la loro funzione che, ancora oggi, è in grandissima parte logistica, demandando al “prodotto” la funzione esperienziale.
Ma il prodotto, anche quando è di natura esperienziale, è solo parte dell’esperienza. Si pensi al cibo, e alla grande componente di dettagli che teniamo in considerazione quando scegliamo un ristorante: la qualità del cibo è un fattore importante, ma lo è anche la vicinanza, lo stile dell’arredamento, il tipo di approccio del personale di sala, la rumorosità dell’ambiente, la velocità con cui servono o la velocità con cui bisogna poi alzarsi terminato il pasto.
Basta dunque chiedersi se valutiamo una gamma di variabili così ampia quando andiamo a teatro o a cinema, per capire se davvero, queste sale o questi luoghi stanno realmente sfruttando appieno il proprio potenziale, o se la principale occupazione sia quella di fornire il prodotto senza un reale valore aggiunto. Certo, la selezione è importante, e la qualità lo è altrettanto: ma davvero ci sarebbero tutti questi clienti nei negozi Apple se non fossero così cool?
Stefano Monti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati