Science Faction
Un confronto fra il regista Richard Kelly (“Donnie Darko, “Southland Tales”, “The Box”) e l'artista Matthew Day Jackson (protagonista di una recente personale al MAMbo di Bologna). Le opere di entrambi indagano in modo interessante e mai banale il confine tra neurologia e coscienza, tra tecnologia e magia, tra umano e sovrumano. Attraverso gli strumenti della cultura popolare. E all’insegna della…
“… c’è il sapere, la scienza. Qualsiasi imbecille
che abbia un qualche reddito ci crede. Non sa
nemmeno perché, ma crede che in qualche modo
sia importante.”
Joseph Conrad, L’Agente Segreto (1907)
Richard Powers, l’autore di un bel romanzo recente (Generosità), ha tirato fuori l’originale e intraducibile termine science faction per marcare la differenza tra le sue narrazioni e la fantascienza più “tradizionale”.
La science faction viene definita come “l’esplorazione del rapporto tra neurologia e coscienza umana attraverso l’arte, la cultura, la tecnologia, la musica, il design e la scienza”, oppure come “una fisica teoretica più soft dell’antropologia”. Detta così, può sembrare uno strano incrocio tra parapsicologia, scienze umane e ossessione tecnologica: in effetti, potrebbe essere un buon modo per descrivere questo approccio. L’autore forse più rappresentativo di questo filone è Ray Kurtzweil, che ha introdotto a livello anche popolare il transumanesimo e – insieme allo scienziato e scrittore di fantascienza Vernor Vinge – il concetto di singolarità.
La science faction è il contesto, lo scenario e la prospettiva in cui si inseriscono le opere di artisti appartenenti a campi separati e distinti, come Richard Kelly e Matthew Day Jackson.
Si prenda, per esempio, The Box (lavoro del 2009 di Kelly tratto dal racconto Button, button dell’immenso Richard Matheson). È un film che risulta ostico e perfino irritante ai più: è effettivamente farraginoso, cervellotico, densissimo. Ma, a un certo punto, compare un poster (nella cantina-studio del padre inventore) in grado di modificare la percezione dell’opera che stiamo guardando, di farcela inquadrare istantaneamente a dovere e di proiettarla in avanti. È un’illustrazione simil-vittoriana, che ritrae una sorta di tempio con vestali, e che reca sul bordo superiore questa frase: “Any sufficiently advanced technology is indistinguishable from magic” (“Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”).
È su questo tema che lavora da sempre Kelly (a partire da Donnie Darko, e attraverso Southland Tales): il confine tra scienza e magia, tra progresso e arcaicità, tra razionale e sacro. Da qui i viaggi nel tempo, le macchine morali e le magnifiche, incomprese apocalissi trash, infarcite di reality, Justin Timberlake e Dwayne ‘The Rock’ Johnson.
Ritroviamo Matthew Day Jackson praticamente sullo stesso fronte. Il tentativo di indagare la storia e la natura umana – e addirittura i misteri della vita e dell’universo – con i mezzi offerti dalla cultura pop contemporanea, è il medesimo. Sconcertante e strabiliante allo stesso tempo. È un modo di essere cialtroni tutto diverso rispetto al nostro; tutto ripiegato sulle strategie di sopravvivenza e di sopraffazione, e che anche quando si fa grande arte si dedica piuttosto alla tragicommedia. Questa è una cialtroneria di altro stampo, che ritrova i suoi archetipi in Edgar Allan Poe, in H. P. Lovecraft e in Aleister Crowley. O nelle vie attraverso cui la cultura psichedelica si pensava come espansione delle coscienze e delle menti.
Una cialtroneria che apre spazi interessanti nel mondo asfittico delle produzioni culturali contemporanee.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #1
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