Ma perché *?!!** non facciamo film così?
Un film inglese sugli anni ’80, che viene girato nel 2006 e arriva in Italia cinque anni dopo. Un film coraggioso, realizzato con fondi pubblici. Viene naturale fare un paragone col nostro Paese.
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This Is England (Shane Meadows, 2006, distribuito in Italia soltanto adesso) è un film meraviglioso. Cattivo, coraggioso con la storia collettiva di un Paese, in grado di fare i conti con un’identità (che è anche un’eredità) completamente al di fuori di retoriche pelose. Basterebbero i titoli di testa: un attimo e bum!, siete già immersi nei primi anni ‘80 del Regno Unito, tra crisi economica, neoconservatorismo d’assalto, rivolte sociali e grande cultura popolare.
Ma c’è molto di più. C’è il romanzo di formazione, e va bene. C’è l’amicizia, la scoperta dell’ingiustizia e della violenza. Tutti questi elementi compongono il ritratto efficace e fulminante di un’intera società.
Soprattutto, This Is England è un’opera controversa, esattamente come dovrebbero essere tutti gli oggetti culturali che vogliono far riflettere, e non solo accarezzare, confermare i preconcetti e il “già noto”. Controversa perché ritrae senza fronzoli la rabbia e la frustrazione – così simili a quelle attuali – di una generazione. E lo fa con uno stile coerente, consono, senza cadute televisive. E originale, pur rimanendo ricco di richiami anche colti al grande cinema inglese di denuncia.
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Shane Meadows - This Is England - 2006
E – udite, udite – il film è realizzato anche con fondi pubblici: la lotteria nazionale, lo UK Film Council e soprattutto lo Screen Yorkshire. Vale a dire, l’equivalente delle nostre Film Commission regionali. Immaginate, per dire, l’articolo 8 che finanzia un film sulla scoperta dolorosa della vita da parte di un gruppo di giovani skinhead. Con le crepe della società tutte in evidenza, che fanno male a guardarle. Con l’educazione all’odio come risposta alla desolazione e alla disintegrazione.
Ora, la domanda è: perché diavolo noi non siamo in grado di fare un film del genere? Perché non è possibile in questi anni vedere sugli schermi una freschezza del genere? È certamente vero che i nostri primi anni ‘80 non sono stati così culturalmente brillanti come quelli britannici. Eppure, se proprio ci volessimo fermare a quel periodo, di materiale “ottimo e abbondante” (come direbbe l’Oreste Jacovacci de La grande guerra: quello sì, un ottimo esempio…) ce ne sarebbe eccome. La mutazione antropologica di un’intera società. La transizione dal conflitto sociale all’epoca del riflusso e dell’“edonismo”. La nascita delle tv private, che equivale all’introduzione storica di un intero, nuovo dispositivo spettacolare e culturale, destinato a durare almeno trent’anni. La letteratura – per esempio, con il recente Dove eravate tutti di Paolo Di Paolo – sta cominciando appena adesso a fare di quell’epoca il proprio tema.
Ma non è detto che ci si debba occupare per forza degli anni ‘80 (e quindi, il problema non sta lì). Anche questi tempi che ci sono dati da vivere sono – purtroppo – piuttosto interessanti. Ma tutti i film che lambiscono gli argomenti sociali lo fanno con le armi spuntate della commedia italiana “annizero”: un genere ormai a sé stante, che fa dell’autoconsolazione e dell’autoassoluzione il suo tratto distintivo, contro peraltro la stessa tradizione italiana degli anni ‘60 e ‘70. Che è come dire: “Ho un modello di atteggiamento e di approccio che funziona, e scelgo invece per convenienza e comodità di fare regolarmente l’esatto opposto”.
La questione non è il periodo storico in cui è ambientata la narrazione (il Ventennio, gli anni ‘50, gli anni ‘70). La questione ha a che fare con il tipo di storie che si sceglie di raccontare, e soprattutto con il modo in cui le si racconta: sempre uguale a se stesso, costantemente avvitato su se stesso, non “esorbita” mai e non accenna mai al resto, al mondo contemporaneo di cui ogni altra storia è una metafora. C’è anzi una fobia di questo stesso mondo, un’ansia di rimozione e un desiderio irrefrenabile di fuga. Di evasione. Ecco perché la storia, recente e lontana, quasi sempre fa cilecca sugli schermi italiani: scappa scappa, alla fine sei scappato anche da te stesso. E ti ritrovi a raccogliere le schegge di memoria di qualcun altro, mettendoli insieme nell’unica maniera che ti hanno insegnato. E solo in quella. Non c’è alcun fuori, al momento, nel cinema italiano: a ben guardare, cambiando radicalmente prospettiva, questa è già la condizione pressoché ideale perché questo fuori ricompaia in forme nuove, e non solo al cinema.
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Francesco Patierno - Cose dell’altro mondo - 2011
Per ora quelle poche opere che provano a mettere, timidamente, un piede oltre la soglia nella rappresentazione della realtà nazionale (come il dignitosissimo Cose dell’altro mondo di Francesco Patierno) si beccano contumelie, semplificazioni e interpellanze parlamentari. Veramente, cose dell’altro mondo.
Christian Caliandro
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