Restless, ovvero la firma di Van Sant
Sfumati i contatti per la regia del sequel della saga “Twilight”, Gus Van Sant resta nel territorio di un’adolescenza liminare tra vita e morte, sebbene con accenti meno fantasy. Un film male accolto dalla critica, che in realtà possiede una grazia crepuscolare e il tocco del grande regista.
Avvicinando la filmografia di Gus Van Sant è utile ricordarne la formazione arty (avantgarde e popartistica) avvenuta sui film di Andy Warhol, Jonas Mekas e Stan Brakhage. L’indole pop art non si trova soltanto nella produzione pittorica (recentemente ha esposto da Gagosian in split con James Franco), ma in filigrana attraverso l’intera filmografia. Si usa dividere i film di Van Sant in “mainstream”, come Finding Forrester o Good Will Hunting, e sperimentali come Gerry o Elephant. In realtà pop e avanguardia convivono, in proporzioni variabili, in tutto il suo cinema. Nella pop art e per le avanguardie è la forma a preponderare sul contenuto e a veicolare il messaggio (eventuale). Così il cinema di Van Sant non è un cinema di narrazioni, semmai si nota la ricorrenza di un immaginario mutuato da motivi estetici e affinità elettive (teenage angst, cultura skater, estetica queer, musica indie).
L’eccezionalità di opere come Elephant o Paranoid Park deriva dalla straordinaria abilità tecnica (nella composizione del quadro e nell’organizzazione del materiale in sede di montaggio, come nell’assemblaggio di una “colonna sonora” composta di rumori ambientali, echi, frammenti di brani musicali senza soluzione di continuità) al servizio dell’evocazione di atmosfere e ambienti. Elephant è probabilmente il film che meglio riflette il clima americano post 9/11 parlando di tutt’altro. Milk fa eccezione: si tratta di un grande film politico mirato a sensibilizzare l’opinione pubblica a proposito della revanche reazionaria che voleva cancellare attraverso la Proposition 8 i diritti gay, perciò necessitava di un biopic convenzionale accessibile e appetibile per le masse. In ogni caso, la strategia espressiva passa attraverso il controllo formale. Come molti artisti visivi, Van Sant firma le sue opere. La sua sigla, immancabile, è un pugno di frame di passaggi ed evoluzioni di nuvole. Si vedono nei titoli di testa di Elephant, appaiono nelle reverie narcolettiche di River Phoenix in My Own Private Idaho e in quelle narcotiche di Matt Dillon in Drugstore Cowboy. Soprattutto si alternano ai colpi di coltello sotto la doccia in Psycho, come i baffi sulla Gioconda di Marcel Duchamp: Psycho è il remake inquadratura per inquadratura di uno dei film più celebri e celebrati di sempre, operazione più vicina all’arte concettuale che al cinema postmodern.
Anche Restless è un’opera firmata. Considerato il ritorno del regista nel mainstream dopo gli anni Zero “sperimentali” per via della fonte letteraria rischiosa – un romanzo sulla love story (o la Love Story, per affinità diegetiche con il famigerato film del 1970) tra un adolescente sociopatico e una ragazza malata terminale di cancro – e per questo ricevuto tiepidamente dalla critica, è in realtà altro e più rispetto a ciò che sembra. Come i suoi predecessori, Restless è un film di atmosfere e stati d’animo. Le prove più immediate sono analogiche: l’ambientazione abituale a Portland, Oregon (introdotta nei titoli di testa con un jump cut di microsequenze in super8 sgranato, omaggio esplicito a Jonas Mekas) e la stagione autunnale, la cui policromia degli alberi durante il foliage è il paesaggio di Elephant. Come Elephant, e quasi tutti i film di Van Sant, racconta una storia di alienazione ed emarginazione di adolescenti difficili. Se i colori sono gli stessi, il tono non potrebbe differire di più: la carneficina cede il posto all’amore romantico che sfida la morte, il nichilismo all’elegia crepuscolare.
Si tratta di uno dei film più “caldi” di un regista abituato a congelare la materia narrativa nella perfezione estetica. Restless è una storia minima e commuovente, interpretata da Mia Wasiwoska e Henry Hopper, figlio di Dennis, giovani, emergenti, belli e più stralunati che dannati. Il finale compendia ed esalta il film intero: un rapido montaggio di flashback alternati a un primo piano di Hopper capace, come auspicato da Béla Balázs, di “spingere il personaggio fuori dalle coordinate linguistiche e spazio-temporali e trasportare il dramma in un regno di emozioni, stati d’animo e pensieri”. Infine, fermo immagine. Commento sonoro: The fairest of the seasons cantata da Nico. Una materia ad alto potenziale emotivo scansa il patetismo, tra pudore e humor, senza perdere intensità grazie alle scelte formali corrette, restando un film sulla malattia e la morte capace di suggerire che l’autunno può essere la più dolce delle stagioni.
Alessandro Ronchi
Gus Van Sant – Restless (L’amore che resta)
USA / 2011 / 91’
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