This Must Be The Place. Doppia visione
Due letture diverse per un film che fa riflettere, scrivere e discutere. Christian Caliandro e Marco D’Egidio offrono ai lettori di Artribune due punti di vista. Per chi al cinema c’è già andato e per chi ancora deve andarci.
Chiariamolo subito: ciò che segue probabilmente non piacerà ai fan di Paolo Sorrentino. This Must Be The Place è un film confezionato benissimo; sontuoso nella fotografia, nel montaggio, nella recitazione e nella colonna sonora; ricchissimo di rimandi e stratificazioni pop. Ma ciò, purtroppo, non basta a farne il capolavoro annunciato di cui si è favoleggiato per mesi e mesi.
La ragione è presto detta. Tutti i dettagli curati, tutti i frammenti narrativi cesellati finemente (inquadrature, battute, idee) non si fondono in un tessuto vivo, ma lasciano allo spettatore la sensazione che restino lì inerti, scollegati l’uno dall’altra. Si dirà, ovviamente: “Ma è proprio questo il punto – fare di una sceneggiatura una non-sceneggiatura, lasciare che i frammenti parlino da soli, creare una storia non lineare sulla scorta dei grandi modelli degli anni ‘60 e ‘70 ecc. ecc.”. Ok. Ma il punto è proprio questo: Fellini e Flaiano, mentre costruivano La Dolce Vita (che continua a rimanere il grande riferimento di Sorrentino, il suo unicorno), avevano bene in mente che l’obiettivo era far sì che i singoli episodi-quadri componessero un grande affresco, e raggiungere un perfetto equilibrio tra struttura e caso: e ci sono riusciti.
Uno scrittore che stimo molto, mezz’ora dopo che avevo finito di vedere il film, mi ha chiarito mentre parlavamo quale fosse il nodo centrale della faccenda. This Must Be The Place funziona come un ambizioso e professionalissimo book, in cui il regista di talento esibisce – a favore del mercato internazionale, presumibilmente hollywoodiano – tutte le sue capacità tecniche e virtuose, tutto ciò che sa fare (va ricordato a questo proposito che il film è una coproduzione italo-irlandese-statunitense). Solo che, ancora una volta, tutto questo non basta a fare un capolavoro.
Inoltre, Cheyenne – uno Sean Penn indiscutibilmente strepitoso – è in tutto e per tutto una proiezione immaginaria non solo del regista e della sua esperienza, ma anche della sua generazione. Della sua visione del mondo; potremmo dire meglio: del suo “sistema morale di riferimento”. Naturalmente, ogni personaggio finzionale è per definizione una “proiezione immaginaria”: ma qui c’è qualcosa di più, nel senso che il protagonista non vive di vita propria, ma solo in quanto funzione drammatica e, a suo modo, documento storico.
Non ci sono dubbi che quelle battute incastonate alla perfezione nelle scene come gemme (“Qualcosa mi ha disturbato; non so cosa, ma qualcosa mi ha disturbato”; “Perché hai permesso a un architetto di scrivere ‘cuisine’ nella nostra cucina? È stupido”) stiano facendo e faranno andare in brodo di giuggiole i coetanei di Sorrentino. Perché questa estenuazione, questa noia in fondo soddisfatta di sé e questa autocommiserazione fanno parte, in definitiva, del loro orizzonte di esperienza collettiva. L’arrendevolezza, la cedevolezza, il dover fare i conti fuori tempo massimo con i padri per raggiungere finalmente la maturità, sono i tratti completi di una generazione. Dal punto di vista invece degli spettatori un po’ o molto più giovani, i valori trasmessi implicitamente dalla risatina di Cheyenne, dal suo sbuffo nervoso o dal trolley eternamente trascinato (una versione portatile della bara di Django…) rischiano di risultare irritanti, più che adorabili.
Christian Caliandro
È come se Paolo Sorrentino avesse messo le mani avanti. Debuttare in America con un film on the road è una scelta coraggiosa, significa sfidare la critica di due continenti: da una parte il confronto con un genere su cui Hollywood ha il copyright, dall’altra il giudizio – ma sarebbe meglio dire pregiudizio – di chi è sempre pronto a smascherare operazioni commerciali quando un autore italiano di talento varca l’oceano. Forse per questo motivo This Must Be The Place, l’ultima opera del regista napoletano che vanta le convincenti interpretazioni dei premi Oscar Sean Penn e Frances McDormand, è un road movie tanto denso e particolare, e tanto ambizioso, da scavalcare il doppio fronte già schierato della critica. Con il risultato che allo spettatore viene da chiedersi se una maggiore semplicità narrativa non fosse preferibile.
L’architettura della storia è analoga a Le conseguenza dell’amore. Cheyenne è un Titta Di Girolamo confinato da se stesso, dalla sua depressione o noia o entrambe le cose, nella sua splendida villa di Dublino. È una ex rockstar di calibro mondiale, e del suo passato conserva con stanca gelosia soltanto l’aspetto: il cerone, il trucco, il rossetto, lo smalto sulle unghie, un casco di capelli neri che spesso gli finiscono davanti agli occhi e lui allontana sempre con un soffio della bocca. I ricordi di quando il successo gli arrideva e perfino Mick Jagger voleva suonare con lui sono però un peso sul cuore, legati alla morte di due ragazzi per “colpa” della sua musica. Oggi Cheyenne è un uomo con una voce flebile e cantilenante, il passo lento e rigido, un trolley trascinato ovunque vada. Ha una moglie, che gli fa quasi da madre.
Come ne Le conseguenze dell’amore, la descrizione del protagonista attraverso i suoi gesti e i suoi modi di relazionarsi con gli altri dura quasi metà film. Serve a farci capire il personaggio nel profondo, a farci intuire i suoi problemi prima che un sentimento nuovo o la scoperta di un sentimento irrisolto lo cambino per sempre. In This Must Be The Place questo sentimento è il legame con il padre, interrotto quando Cheyenne era un adolescente che sognava di calcare le scene del rock. La seconda parte del film – lo sblocco della trama dopo la caratterizzazione del protagonista – è il racconto di come la morte del padre a New York, invece di spazzare via ogni possibilità di recuperare il rapporto, rappresenti straordinariamente l’occasione per Cheyenne di sentirsi per la prima volta, pienamente e con orgoglio, un figlio. Ed è qui che il road movie inizia, quando in occasione dei funerali Cheyenne viene a sapere di un’ossessione del padre durata tutta la vita: la sete di vendetta nei confronti del nazista che gli inflisse un’umiliazione nel campo di concentramento. Per portare a termine la ricerca dell’aguzzino, Cheyenne attraverserà l’America in pick-up, ripercorrendo il suo passato e accarezzando, alla chitarra This Must Be The Place dei Talking Heads, quello che sarebbe potuto essere.
Il film di Sorrentino è una storia americana nella carica di speranza e nel messaggio positivo che trasmette: bisogna avere il coraggio di cambiare, almeno una volta nella vita non si deve avere paura. E se in un dialogo Cheyenne dice che “tardi è tardi”, alla fine sperimenterà su di sé che non è mai troppo tardi per diventare adulti. Tuttavia, non è tutto così semplice. Sorrentino è un autore, un regista sofisticato che “si sente” dietro la cinepresa, e tanto nella forma audio-visiva delle sue opere quanto nella sceneggiatura e nei significati delle singole scene si racchiudono suggestioni, spunti, tasselli di un disegno da interpretare. This Must Be The Place è, sotto questo punto di vista, un’opera fin troppo costruita, piena di episodi e storie parallele che aggiungono carne al fuoco attraverso i dialoghi a scapito della linearità narrativa della vicenda principale. Nascondere nei dialoghi, se non nei monologhi, una chiave di lettura del protagonista (magari simile a un aforisma) è sempre stata una caratteristica di Sorrentino, basti pensare a Il divo. Ma in This Must Be The Place i tanti personaggi di contorno con cui Cheyenne scambia opinioni (dall’amico improbabile seduttore al proprietario del pick-up, all’inventore del trolley) non gettano una luce diretta o per contrasto sul protagonista ma condensano squarci di realtà disorganici, rappresentano pezzi di un puzzle troppo grande. In questo modo il film si allarga a fornire frammenti di una riflessione generale sulla vita (in cui si inserisce anche la tragedia dell’Olocausto) che esula dai contorni della trama e distrae lo spettatore, continuamente sollecitato ad astrarre il pensiero dal percorso personale di Cheyenne.
Nel suo primo film americano, Sorrentino si conferma autore dei più interessanti, dotato di un’eclettica coerenza stilistica e interessato a sviluppare di opera in opera una personale ricerca sulle forze profonde che governano l’esistenza umana. La cosa difficile è rendere le cose semplici.
Marco D’Egidio
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