Paranoia & interpretazione del mondo: “Le Idi di marzo”, “J. Edgar”, “La talpa”
C’è uno spettro che si aggira per l’Occidente: è il cinema impegnato e civile. Carico di oscuri presagi, e intessuto di interpretazioni accattivanti della società contemporanea. Tre esempi analizzati dalla nostra tenace rubrica di cinema.
Una “lucida oscurità”: è il tratto comune di parecchi film nelle sale in queste settimane, non a caso diretti da attori-registi che si dedicano a opere analitiche e coraggiose che i loro colleghi “autori” semplicemente si sognano, ponendosi sulla scia di Robert Redford: il quale nelle sue alterne prove da regista (dal mediocre e sfilacciato Leoni per agnelli del 2007 al compatto e sorprendente The Conspirator del 2010) ha sviluppato la lezione appresa interpretando in gioventù Il candidato (Michael Ritchie 1972), I tre giorni del Condor (Sidney Pollack 1975) e Tutti gli uomini del presidente (Alan J. Pakula 1976). È a quel cinema degli Anni Settanta – a cui Fredric Jameson dedicò il suo importante saggio Totality as Conspiracy – che questo filone al tempo stesso nuovo e antico dichiaratamente si ricollega.
Le Idi di marzo di George Clooney, per esempio, non è forse un capolavoro, ma di sicuro è un film formidabile. Un romanzo di formazione al contrario, tutto virato in negativo. Che costituisce anche la prima critica esplicita a Obama e al suo modello, al circo dei sogni politici (con tanto di iconografia comunicativa à la Shepard Fairey). Il mondo in cui regolarmente la rappresentazione si sostituisce alla sostanza, e in cui il medium viene sistematicamente scambiato per il messaggio, viene reso, in maniera a tratti davvero magistrale, attraverso l’uso di scorci e inquadrature che riescono a essere molto simboliche senza risultare didascaliche. Tra uffici stampa e strategie mediatiche, sempre connesso al suo BlackBerry e sempre dissociato dalla verità, Ryan Gosling compie un percorso impressionante, da e verso la disintegrazione di un sistema morale. Niccolò Machiavelli avrebbe sicuramente qualcosa da dire in proposito.
J. Edgar di Clint Eastwood va ancora più a fondo, in questa discesa agli inferi della paranoia come chiave di interpretazione politica del mondo, e della realtà. Un individuo controllato all’inverosimile, dominato dall’ossessione maniacale di sapere e di archiviare questo sapere, un individuo che permette solo a sua madre e alla sua segretaria di chiamarlo ‘Edgar’, ma che interpone il filtro di quella ‘J.’ tra se stesso e il resto del mondo, perché ama porre a distanza e controllare le emozioni, diventa l’uomo più potente degli Stati Uniti per un periodo quasi inconcepibile. Grazie alle informazioni usate come armi micidiali: “L’informazione è potere. Ci ha protetti dai comunisti nel 1919, e da allora la nostra FBI ha continuato sapientemente a raccoglierla, organizzarla e custodirla”.
La talpa di Tomas Alfredson infine, rivisitazione apparentemente nostalgica dell’immaginario culturale da Guerra Fredda, affronta la realtà contemporanea da un ulteriore punto di vista. Il romanzo di John Le Carré del 1974 diviene il pretesto per indagare un sistema relazionale che tende a evaporare e a scomparire, lasciando intatta e scoperta la crudeltà intrinseca della storia umana. Quella messa in scena è una violenza sottile, tutta psicologica, ma non per questo meno feroce e letale di quella primitiva. Il mondo che appare negli interstizi di questa trama è grigio, spento, plumbeo. Spettrale. Esattamente come quello di oggi, al netto degli elementi decorativi e vintage.
Ciò che questi film, secondo modi e stili differenti, ci dicono è che più ci si addentra nei livelli successivi, negli strati della realtà, più si rischia di perdersi. La comprensione faticosa della verità non porta quasi mai la felicità, e neanche la serenità. Però è interessante. O, come diceva John Lennon: “The more real you become, the more unreal it becomes”.
Christian Caliandro
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