I poliziotteschi (mica tanto) immaginari
Valter Lavitola. Luigi Bisignani. John Woodcock. Domenico Scilipoti. Ruby & Minetti varie. E molti, molti altri. Erano i protagonisti di un'Italia che riesce a produrre solo un demi-monde fatto di faccendieri, politicanti da strapazzo e puttane di lusso. A questo punto non si capisce perché, come negli anni ‘70, questo zoo non debba diventare protagonista di un nuovo genere cinematografico.
Provate per un attimo a immaginare: quali sarebbero, oggi, i poliziotteschi italiani? Di che cosa parlerebbero?
I poliziotteschi degli anni ‘70 avevano un legame diretto, strettissimo con le vicende della società che molte volte ritraevano quasi in presa diretta. Giusto per fare qualche esempio, La polizia ringrazia (Steno, 1972) affronta direttamente il tema del terrorismo nero: l’Anonima Anticrimine su cui indaga il commissario Bertone (Enrico Maria Salerno), altro non è che una potente organizzazione che prepara un colpo di stato. E l’attentato nell’albergo milanese al centro di La polizia ha le mani legate (Luciano Ercoli, 1974) richiama da vicino la strage di Piazza Fontana.
Se ci pensiamo, non esistono di fatto altri film italiani che raccontino e rappresentino altrettanto bene, in maniera altrettanto viva ed efficace, la società di quel periodo nei suoi aspetti più crudi e sordidi, nelle sue collusioni oscure tra criminalità, mondo degli affari e politica.
Proviamo, quindi, a trasportare tutto questo nella situazione attuale. Le vicende dei mesi scorsi offrirebbero materiale di prima scelta a registi e sceneggiatori, per giunta già pronto. Ready-made. La cronaca e la storia recente sono popolate da un demi-monde che farebbe la fortuna di un nuovo Enzo G. Castellari o Sergio Martino: i protagonisti assoluti della scena sono infatti papponi da quattro soldi, faccendieri senza scrupoli né peli sulla lingua, prostitute d’alto bordo. Questo universo emerge attraverso indagini scottanti e controverse, che vengono seguite e condotte sui media e molto spesso ostacolate ai piani alti.
Il tutto condito e connesso da un linguaggio che è stato già analizzato dagli osservatori più acuti nelle sue caratteristiche di annientamento del senso: “Come si vede, non c’è alcun senso. Ma c’è la parola ‘cazzo’ che copre la mancanza di senso. Il turpiloquio di Lavitola è l’ira del dire che scardina e surroga i significati. Bisognerebbe fare circolare questi documenti nelle scuole: come avvertimento, come ammonimento” (Francesco Merlo).
Si tratta di personaggi reali (con gesti, movenze e tic interessanti) che ricordano in maniera impressionante quelli finzionali degli amati poliziotteschi: il magistrato irruento, tutto d’un pezzo e con la chioma ribelle; i politici apparentemente intoccabili, implicati in losche vicende (che condizionano in maniera non sotterranea la storia profonda del Paese); il sottobosco criminale, con i suoi vizi e i suoi vezzi; addirittura, un sistema mediatico che, se da una parte sembra voler comprendere ciò che accade, dall’altra pare esso stesso parte integrante del problema. E, sullo sfondo, le grandi trasformazioni in atto in Italia (violenza dilagante, disintegrazione sociale, crisi economica).
Resta da capire, a questo punto, come mai i nostri autori (e gli studios con loro, prima di loro) non colgano queste preziose opportunità e non attingano a piene mani da questo materiale narrativo di prima scelta. Come mai guardino costantemente da un’altra parte e preferiscano indugiare in commediole seriali di macchiette senza spessore e in claustrofobici melodrammi familiari e domestici, che non intrattengono alcun rapporto con la realtà esterna. Ma che si svolgono, sempre e comunque, nel vuoto pneumatico.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #3
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