Man After Death: “Robocop” & “Source Code”
Da un po’ di tempo, si aggira nel cinema americano il protagonista “spettrale”. È un personaggio la cui vicenda comincia a essere narrata quando muore. Sembra una contraddizione in termini, un paradosso: ma non lo è. Questa narrazione “oltre la vita” ci dice molto non solo dello stato del cinema negli ultimi 25 anni, ma anche dello statuto dei modi di raccontare, e delle vibrazioni significative che percuotono oggi l’immaginario collettivo contemporaneo.
“I know you. You’re dead! We killed you! We killed you!”
Robocop (Paul Verhoeven 1987)
Senza per forza chiamare in causa il Bruce Willis de Il sesto senso (M. Night Shyamalan 1999), che meriterebbe comunque un discorso a parte, prenderemo in considerazione quello che può essere considerato il punto d’origine di questo discorso, e il suo momentaneo termine: vale a dire, RoboCop (Paul Verhoeven 1987) e Source Code (Duncan Jones 2011).
Riguardo al primo, la situazione post-mortem dell’agente Murphy (Peter Weller) è molto, molto incarnata: RoboCop non è affatto una presenza fantasmatica, ma identifica la neonata mitologia cyberpunk e incuba tutta la sensibilità post-human (che sarà così importante e trainante, anche nel campo delle arti visive, lungo tutti gli Anni Novanta). Mentre infatti gran parte delle analisi iniziali del film si soffermavano sugli elementi fortemente distopici del realismo fantascientifico proposto da Verhoeven (la Detroit del film fotografa alla perfezione lo smantellamento e il degrado postindustriale della Motor City durante gli Anni Ottanta, stato da cui solo ora la città sembra uscire), sulla violenza iperreale e sul supposto cripto-fascismo della narrazione (il modello principale rimane pur sempre il cinema poliziesco degli Anni Settanta, tra l’ispettore Callaghan e Il braccio violento della legge), il tema centrale di RoboCop è la crisi identitaria di Murphy, che – né vivo né morto – non sa più chi, o cosa è.
Nella scena forse più bella di tutto il film, Murphy torna a casa sua e viene assalito dai ricordi provenienti dalla sua memoria “umana” (la moglie, il figlio, la vita domestica), che mette in crisi il suo nuovo Io e non riesce a configurarsi all’interno della memoria disincarnata e postumana: il chip elettronico non “legge” l’assalto delle emozioni. E RoboCop va in cortocircuito. Il suo essere un’arma micidiale – e, in definitiva, propagandistica – al servizio del Potere entra cioè in profondo conflitto con le sue radici, con la specie da cui proviene: solo la graduale riscoperta di un sistema morale lo guiderà nella ricostruzione e nella riappropriazione della sua identità. Che passa, non a caso, attraverso l’esternazione del suo conflitto interno.
Un quarto di secolo dopo, in Source Code, la situazione tende a farsi molto più complessa e sfaccettata. Saltati e superati gli schemi del post-human, il dubbio adesso è ancora più agghiacciante: anche se mi sveglio in un treno, mi verso del caffè addosso e sono in grado di percepire con i sensi e con la mente tutti i dettagli del mondo attorno a me, sono proprio sicuro che questa sia la realtà, e non una proiezione immaginaria? Posso davvero dire di essere vivo?
È il vecchio e sempre nuovo dilemma alla base del realismo. Dunque, il romanzo di formazione del pilota Colter Stevens (Jake Gyllenhaal) al servizio dell’unità militare Beleaguered Castle non è poi così dissimile da quello che tutti noi, in qualche modo e per vie diverse, stiamo compiendo e affrontando. Ogni viaggio indietro nel tempo – con il fine di modificarne la linea, di alterare e “correggere” il passato, i suoi guasti e i suoi errori – può essere compiuto solo a patto della propria scomparsa. La presuppone. (Anche se sono morto e si stanno servendo di me, ho davvero il diritto di morire? Di finire? E dove finisco, esattamente? Sono proprio morto – o sono finito altrove?)
È come se oscuramente una serie di registi e di opere cinematografiche, attraverso le loro messinscene, stessero tentando di comunicarci da un paio di decenni qualcosa del genere: la comprensione autentica della Storia e delle storie può avvenire solo a patto di una sospensione, di un’astrazione.
Dell’epoché.
Di un’autoesclusione dal regime della vita quotidiana e del flusso continuo – di dati, di stimoli, di informazioni, di elusioni – in cui siamo immessi e di cui siamo parte: “Il flusso come tecnologia e forma culturale del mondo televisivo non è il fiume di Eraclito in cui non ci si poteva mai immergere due volte. È il fiume dell’eterno presente, in cui si è costantemente immersi ma non ci si bagna mai” (Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza, 2006).
Christian Caliandro
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