Millenium, secondo atto per il primo capitolo
David Fincher alle prese con un best seller di Stieg Larsson. “The Girl with the Dragon Tattoo”, primo episodio della trilogia “Millenium”, è un un esercizio di stile che è difficile non definire perfetto. Visioni sofisticate, approfondimento psicologico e colonna sonora adeguata.
Secondo adattamento per il grande schermo del primo episodio di Millennium, trilogia best seller di Stieg Larsson, The Girl with the Dragon Tattoo (Uomini che odiano le donne) di David Fincher è un esercizio di stile perfetto. Un esempio da manuale di come il cinema hollywoodiano, quando si trova davanti a spunti letterari originali e interessanti (il che evidentemente non accade spesso), sappia reinterpretarli attraverso opere di qualità, curate nei minimi dettagli.
Dalle mani di Fincher, abituate a trattare thriller seriali in film come Seven o Zodiac, sono già uscite rivisitazioni cinematografiche fedeli e ben riuscite, ma in The Girl with the Dragon Tattoo il regista ha saputo trasporre con soluzioni visive potentemente funzionali e sofisticate la violenza fisica e psicologica che muove la figura chiave dell’intera trilogia: Lisbeth Salander (interpretata da una diafana e adolescenziale Rooney Mara).
La trama è ben nota: giornalista impegnato nonché direttore dell’affermata rivista Millennium, Mikael Blomkvist si ritrova screditato e condannato per diffamazione dopo aver cercato di gettare nel fango uno dei più potenti e corrotti uomini d’affari della Svezia. Dimessosi dai suoi incarichi e sull’orlo della rovina, decide di accettare l’ingaggio per un’indagine da parte di Henrik Vanger che da quarant’anni cerca di scoprire la verità sulla scomparsa della giovanissima nipote Harriet. Anziano e rispettato industriale, Vanger gestisce con l’aiuto di nipoti e fratelli l’affermata impresa di famiglia dall’isolata cittadina di Hedestad. In seguito a un’accurata ricerca sulla vita pubblica e privata del noto giornalista (eseguita dall’investigatrice gutter punk Lisbeth Salander) Vanger si convince dell’onestà e dell’integrità di Blomkvist, decidendo di affidargli così il delicato incarico. Da quel momento ha inizio per Mikael l’isolamento fisico e psicologico che lo porterà a cercare la collaborazione di Lisbeth e a risolvere, grazie al suo aiuto, il caso.
Fincher non lascia spazio a dubbi, mettendo i primo piano i diversi (e complementari) aspetti psicologici che delineano i baratri esistenziali dei due protagonisti. La sua Lisbeth è una sopravvissuta, fragile, ferita e come tale è spietata e vendicativa. Al contrario della capacissima e mascolina Noomi Rapace, l’esile e aspra sensualità di Rooney Mara sa rendere in gesti e movimenti la femminilità castrata della Lisbeth di Larsson in modo molto efficace, ricordandoci costantemente il suo passato, rendendolo implicito in ogni aspetto del suo presente. Anche la scelta di Daniel Craig è corretta, per prestanza fisica e aura pubblica. Il Mikael di Larsson è un uomo di fascino e di grande successo che improvvisamente perde tutto quello che ancora aveva conservato: lavoro e rispetto (la vita familiare era già un neo in una vita di riscontri e gratificazioni).
Colonna ed effetti sonori sono studiati nei minimi dettagli per colorare di drammaticità e indeterminatezza le immagini algide e funzionali di Jeff Cronenweth. Dalla costruzione perfetta dei titoli di testa (accompagnati dalla disturbante cover di Immigrant Song di Trent Reznor e Atticus Ross con Karen O) letteralmente immersi in un’indefinita oscurità biologica/digitale in poi, Fincher esalta l’umanissimo isolamento (volontario o forzato) come cardine dello svolgimento di una trama reinterpretata in termini di conoscenza e decodificazione del mondo (analogico e digitale). E lo fa senza paura di trarre dal romanzo di Larsson ciò che più gli interessa, scegliendo e delineando una struttura semplice, senza digressioni informative, che affida “all’ambiente visivo” il passato, il presente e il futuro dei due protagonisti. Come nel romanzo, anche il film mette in primo piano il contrasto di cui sono portatori Mikael e Lisbeth, abili incarnazioni di due visioni opposte del mondo (per esperienze pregresse e per potenzialità interpretative). Letteratura e new media, giornalismo tradizionale e spionaggio hacker si intersecano supportandosi, rendendo efficace e completa la comprensione del mondo (in questo caso anche di un mistero) senza tralasciarne in alcun modo la complessità.
Fincher è un autore e come tale lascia la firma su ogni lavoro: anche per The Girl, questo accade. C’è una variante importante rispetto al romanzo e alla prima trasposizione cinematografica: Harriet è viva sì, ma non si trova in Australia, ha cambiato la sua identità definitivamente con la cugina (ormai morta) e vive a Londra. Il regista la mette sotto gli occhi dello spettatore fin dall’inizio dell’indagine, non permettendo nemmeno a chi ben conosce il primo episodio di Larsson di “ritrovarsi”, di comprendere la verità e lasciandoci credere, come in Fight Club o in The Game, che tutto sia (illusoriamente) sotto il nostro controllo.
Giulia Pezzoli
David Fincher – The Girl with the Dragon Tattoo
USA / 2011 / 158’
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