L’incredibile presenza dell’assenza
Mentre a Milano continua a essere la protagonista di due mostre, fra PAC e Galleria Lia Rumma, Marina Abramovic imperversa anche in video. Parliamo dell’uscita italiana del documentario di Matthew Akers che ruota intorno alla sua personale al MoMA.
She’s never not performing
Klaus Bisenbach
Nata a Belgrado da genitori partigiani, Marina Abramovic ha vissuto e interpretato l’arte come naturale espressione dell’essere, come approfondita conoscenza di se stessi, come sfida al superamento delle proprie paure. Ha intrecciato la propria vita emotiva e professionale fino a diventare la “Regina” della performance, utilizzando il corpo come veicolo per superare limiti fisici e mentali allo scopo di raggiungere gli obiettivi che si era imposta. Disciplina, rigore, carisma, passione.
Durissima e fragile allo stesso tempo, l’icona dell’arte contemporanea si mostra al mondo ancora una volta senza veli. Davanti alla telecamera di Matthew Akers, in occasione della sua grande retrospettiva al MoMA di New York nella primavera del 2010, l’artista si concede nel momento più importante della carriera: la sua consacrazione e la definitiva legittimazione di una delle più seducenti e oltraggiose forme d’arte del XX secolo.
Il film, presentato in anteprima al cinema Odeon di Bologna da Biografilm e MAMbo e premiato con il Panorama Audience Award come miglior documentario al 62esimo Festival del Cinema di Berlino, è un ipnotizzante viaggio nel suo mondo: dalle performance delle origini ai dodici anni di lavoro e relazione con Ulay, dal proseguimento della sua carriera solista verso le azioni più “teatrali” alla preparazione di The Artist is Present. Marina Abramovic senza alcuna paura racconta i traumi dell’infanzia e il dolore per la perdita di Ulay. Lascia che ogni parte di sé venga ripresa senza filtri, senza confini, permettendo alla telecamera e al mondo di “invadere” completamente il suo spazio (fisico e mentale).
Durante tutta la fase di preparazione della retrospettiva, Marina viene ripresa mentre lavora a stretto contatto con il curatore Klaus Bisenbach, il gallerista Sean Kelly, il suo assistente Davide Balliano, i tecnici del museo, gli addetti alla sicurezza, i performer, in un vortice continuo di selezioni e decisioni. Incontra Ulay (aka Uwe Laysiepen) e ripercorre, a 63 anni, il suo passato, vivendo la nostalgia di un periodo di libertà e creatività senza confini geografici. Solo alcune interviste (al critico Arthur Danto e allo scrittore Thomas McEvilley) interrompono il flusso di una narrazione che diventa un’occasione imperdibile, un ritratto radicale e intimo di una delle personalità più magnetiche e intriganti dell’arte contemporanea, dei suoi metodi e del suo universo.
La forza e la determinazione con cui l’artista si dedica alla mostra e a ogni suo dettaglio, dall’allestimento alle luci, dalla scelta delle performance alla selezione degli artisti che dovranno “interpretarla” nel riprodurle, sono le stesse grazie alle quali è diventata ciò che è: un capostipite, una “diva” in quella forma di espressione artistica che più richiede allenamento, capacità di concentrazione, autodisciplina. Essere e fare nulla per poter diventare lo specchio del mondo, per poterlo accogliere e contenere, per amarlo e essere amata. Lo si può intuire dalle prove a cui sottopone i giovani artisti che collaborano alla mostra: digiuno, meditazione, contatto con la natura, svuotamento, tutti esercizi per preparare la mente (e quindi il corpo) al sacrificio, per ritornare a uno stadio primordiale di coscienza fino a raggiungere i limiti della sopportazione, fino ad annullare dolore e fatica.
Tutta la mostra si snoda intorno a quella che si può definire la performance solista più lunga e faticosa della sua carriera: The Artist is Present. In “un quadrato di luce” al primo piano del MoMA vengono diposti un tavolo e due sedie. Durante tutti i tre mesi di apertura, ogni giorno, per otto ore al giorno, l’artista siederà al tavolo, in attesa che il pubblico sieda di fronte a lei. Senza toccarla, senza parlarle, gli spettatori verranno chiamati uno alla volta e dovranno solo attendere di essere guardati negli occhi per stabilire quello che l’artista definisce “an energy dialogue”.
Da marzo a maggio, Marina Abramovic incontrerà circa 1.400 persone: inutile dire che le reazioni saranno le più svariate, dalla commozione alla felicità, e i fortunati che, dopo ore di fila, potranno avere un contatto visivo con lei ne usciranno “cambiati”, arricchiti di un’esperienza unica, forte e sconvolgente. “She needs the audience like hair to breathe”, Marina Abramovic si riempie dell’altro, lo accoglie e si dona completamente come se non potesse vivere senza il suo pubblico. Ed è questo che affascina e fa capitolare chi le sta di fronte, il suo innocente bisogno d’amore.
La semplicità e la bellezza di The Artist is Present sta proprio qui: nel rappresentare al meglio l’inscindibile unione tra la sua filosofia di vita e la sua arte.
Giulia Pezzoli
Matthew Akers – Marina Abramovic: The Artist is Present
USA / 2012 / 106′
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