American Horror Story
Beh, se nel cast hai Jessica Lange sei già a metà dell'opera; e se non tutto, almeno buona parte del resto passa in secondo piano. Una sagra di cliché, American Horror Story, approdata con discreto successo su Sky Italia dal mese di novembre 2011.
Negli Stati Uniti, dove la prima serie si è chiusa, ascolti modello diesel con partenza non esaltante ma crescendo finale, per un prodotto – American Horror Story – che diventa il più visto di sempre nella storia di Fox Extended.
Cliché, si diceva, ma confezionati e serviti con la classe sufficiente a emozionare chi guarda e a dividere la critica, ancora indecisa se premiare o cassare i diversi riferimenti a Lynch. Atmosfere gotiche, presenze inquietanti, freaks e un erotismo voyeuristico: ne succedono di cotte e di crude nella casa stregata acquistata dalla difficile famiglia Harmon, senza particolari sussulti però, o trovate davvero eccitanti. Tanto, forse troppo, si basa su un gusto per l’estetica che è firma in calce del producer Ryan Murphy, già papà di Nip / Tuck: nessuna remora, da parte sua, nel traslare in ambiente horror le perversioni che hanno lasciato il segno nel fortunatissimo serial dedicato alla chirurgia estetica.
Più che il plot (non il massimo), più che la fotografia (bellissima, ma già vista), più che le interpretazioni (ok la Lange, ma il resto del cast non acchiappa troppo), il carattere di eccezionalità è dato dai progetti futuri per la serie. Stagioni pressoché indipendenti le une dalle altre, ricircolo di personaggi e attori, cambio di location: American Horror Story spezza la tradizione e sfida la fidelizzazione del pubblico, proponendo una collezione di case stregate, in diverse città americane, nelle quali si muovono personaggi e interpreti che passano dalla porta girevole.
Francesco Sala
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati