Alien, il prequel. Ma che nostalgia…
Arriva anche in Italia "Prometheus". Un cast da Olimpo con un Ridley Scott leggermente arrugginito. Al confronto, la “fantascienza” di Werner Herzog stravince.
Si parla di Titani, ma il regista di Blade Runner non è eterno come loro e sulla pellicola pesa un modus operandi vecchia scuola. L’idea iniziale di Ridley Scott era quella di un prequel di Alien ed è impossibile non accorgersi delle innumerevoli citazioni autoreferenziali.
Il prologo consiste in un personaggio enorme e lattiginoso che beve una pozione e sparisce in una spettacolare cascata. L’attenzione si sposta sugli scienziati Elizabeth Shaw (Noomi Rapace) e Holloway (Logan Marshall Green). Lei è poco credibile nel ruolo di scienziata. Con la sua espressione arcigna, gli occhi piccoli, il naso schiacciato e leggermente adunco, la bocca stretta, non proietta un’immagine intelligente né futuristica. Lui praticamente invisibile è pressoché inutile. Alcuni studi li portano a individuare dei sincretismi grafici in varie pittografie di popolazioni antiche: si tratta di una costellazione impossibile da vedere a occhio nudo. Lì dovrebbe celarsi il segreto dell’origine dell’umanità.
Una mega corporation capitanata da Vickers (Charlize Theron), superlativa nella sua fredda spietatezza, finanzia il viaggio lunghissimo degli scienziati. Ma lo scopo non è scientifico né collettivo, infatti il padrone ultracentenario della società Weyland (Guy Pearce, il più cattivo di Hollywood) pensa di poter usurpare ai progenitori il segreto dell’immortalità. Interpretato, poi, in maniera eccelsa da Michael Fassbender è l’androide cinefilo David, in pieno stile Blade Runner, con perdite viniliche, humor metallico e tutto il resto.
Scenario postmoderno, con meccanismi narrativi un po’ troppo abusati, Prometheus non arriva a superare la linea di demarcazione tra un film ben fatto e un capolavoro. Ma neanche ci si avvicina. Gli attacchi dei serpentoni all’equipaggio, la statua immensa del volto di un uomo-dio, la battaglia sacrificale fra le astronavi non aggiungono nulla alla conoscenza che abbiamo acquisito finora e persino l’idea della malattia che poteva essere sfruttata in maniera più originale, qui non è che accennata, limitandosi al ruolo di pretesto narrativo. Quando si parla di fantascienza non si può evitare di pensare a Kubrick e alcuni ambienti, pettinature e costumi sono evidentemente omaggi a 2001 Odissea nello spazio. Con qualche variante contemporanea da loft newyorchese.
Di tracotanza greca qui ce n’è ben poca, a parte l’uso di un titolo così epico, che è un po’ pretenzioso rispetto al risultato. Molto più fantascientifico era il Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog, che sicuramente Scott avrà visto. Quell’insolito documentario, dove l’applicazione del 3d è stata veramente innovativa. Ambientato in un luogo così ancestrale e affascinante come la grotta di Chauvet, associato ai leitmotiv etno-metafisico-musicologici cari al regista, traghettava gli spettatori anni luce di distanza dal presente, in un tempo non bene identificato tra l’origine dell’uomo e il suo ignoto futuro.
Vedendo i due film di seguito si evince chiaramente la povertà d’ispirazione di un Ridley Scott che non fa fantascienza da tre decadi. Prometheus è comunque impedibile, ma non memorabile.
Federica Polidoro
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