La viralità della Rete e un regista ormai stanco
Chen Kaige rifila uno pseudo-dramma in salsa agrodolce e dal risvolto sentimentalista. Con un déjà-vu Ikea. La prima recensione dal Festival del Cinema di Toronto.
Non ancora del tutto smaltito il jet lag, è difficile tenere il ritmo forsennato delle proiezioni stampa. In ogni fascia oraria ci sono più di dieci proiezioni e capire qual è il cavallo vincente non è poi così facile. Oggi per non rischiare troppo ci siamo buttati su Chen Kaige. Abbiamo sbagliato comunque… Sono tanto lontani ormai i tempi di Addio mia concubina e Together da farci sospettare di aver sbagliato sala.
Kaige è stato riconosciuto come rappresentante della tradizione culturale cinese con le sue produzioni drammatiche. Caught in the Web prende le distanze dal solito stile e vira verso la drammedia, che a quanto pare sta diventando il trend del momento, con una riflessione sulla complessa etica contemporanea. Prendendo spunto dalla presenza invasiva di Internet nella vita dei nostri tempi, Chen investiga quanto la realtà possa essere soggetta a distorsioni. Che tipo di gravi conseguenze possano scaturire dalla più insignificante delle azioni, se decontestualizzata.
Ye Lanqiu (Gao Yuanyuan) è una bella e giovane donna in carriera alla quale viene diagnosticato un cancro in stadio avanzato al sistema linfatico, che richiede un immediato trattamento. Ancora scioccata dalla notizia, entra in un autobus e completamente concentrata sull’elaborazione della triste novità maltratta un anziano alla ricerca di un posto a sedere. L’atto registrato su un dispositivo mobile da una zelante reporter viene diffuso come viral su Internet, scatenando una serie di eventi ancor più catastrofici sia sulla vita personale che lavorativa della donna. Alla fine Lanqiu, per un evento fortuito, incontra la persona che ha generato il disastro.
La manipolazione mediatica è un tema usurato e, anche se Kaige prende come parametro Internet, non riesce a trattare la materia con originalità, né la approfondisce in modo convincente. L’eleganza visiva delle sue opere precedenti qui sembra un pallido ricordo e anzi il racconto può addirittura essere fastidiosamente kitsch e stucchevole, fatto che cozza un po’ con le teorie di Chomsky.
Kaige si concede anche qualche vezzo: nella colonna sonora cita direttamente il Tarantino di Kill Bill e poi il Bonnie and Clyde di Arthur Penn. Certo che a pensare come Billy Wilder aveva trattato la materia (vedi L’asso nella Manica), oppure se andiamo più lontano, con King Vidor ne La Fonte Meravigliosa, è impossibile non costatare che il film di Kaige è destinato all’oblio. Nonostante abbia un ritmo accattivante, è mediocre dall’inizio alla fine.
Fuori contesto specifico va anche constatato è che i set cominciano sospettosamente a somigliarsi troppo: la presenza sinistra della stessa lampada Ikea in due film consecutivi di due nazionalità diverse e lontane, cumulata ad altri “dettagli svedesi” sparsi qua e là tra Cannes, Venezia, Roma e Taormina, dà una inquietante sensazione di déjà-vu.
Riemerge alla mente un film visionario di Eran Kolirin dal nome esoterico, Hahithalfult. Là si evidenziava, con una metafisica e inedita lucidità, un possibile scenario contemporaneo. Nelle case investigate in questo film, tutti i mobili sembravano diversi, ma in realtà erano sempre gli stessi, con varianti di luce e posizione. Alcuni film sono proprio come quelle case.
Federica Polidoro
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