Servillo uno e doppio. Fra Ciprì e Bellocchio
Visionario, grottesco, tragico. Improbabile eppure vero. Daniele Ciprì lascia Franco Maresco e fa il suo primo film in solitaria facendo maturare i volti surreali della trasmissione cult Cinico Tv in personaggi con una storia da raccontare.
È stato il figlio, esordio alla regia in solitaria per Daniele Ciprì, nasce da una storia di Roberto Alajmo, tradotta in un affresco sociale e geografico che vede protagonisti una Palermo suburbana (“quella dei miei ricordi d’infanzia”, dice il regista, ma il film è girato stranamente in Puglia) e una famiglia disgraziata della cui miseria si può ridere fino a un certo punto. Fino a che la mafia non appare come una nebbia capace di rapire in un solo istante la vita di chi uccide e quella dei suoi familiari.
Allora la farsa, filmata come un fumetto di Alan Ford, inizia a progredire verso la tragedia, che si compirà inesorabilmente nelle scene finali, mostrando una verità inattesa. Sciascia sosteneva che per capire la mafia occorre studiare il matriarcato che sottende la vita famigliare siciliana. Ciprì riesce, con la sua freschezza e originalità (con quella sua ostentata e cinica “difesa” dell’ignoranza) a tratteggiare il problema in poche scene finali da capolavoro, quando i volti si trasformano in maschere del teatro greco antico per innalzare una questione morale al di sopra di analisi e dibattiti, dando voce alla vita vera. Prima di tutto ciò, e di un piccolo colpo di scena che da solo vale il film, la ricerca dei soldi da parte di un capofamiglia un po’ schiantato dà vita a scene di rara ilarità.
A dargli corpo e voce è un Toni Servillo elevato a potenza, che parla in siciliano stretto e crea una perfetta, inedita maschera di una commedia dell’arte che il Suditalia non ha mai smesso di forgiare (ma neppure il Nord lo ha mai fatto, anche se in modo diversi). Servillo, che è uno dei protagonisti anche del film di Marco Bellocchio, si conferma così attore assoluto, specie di cinema. Per il secondo anno è infatti protagonista in due film in concorso a Venezia (“non sono parente dei direttori Müller e Barbera”, tiene a precisare lui).
Il film, la cui trama vede una famiglia aggrovigliarsi dietro l’attesa di un risarcimento statale di 200 milioni di lire per la perdita della figlia, ha le tinte forti delle grandi pellicole espressioniste degli Anni Venti, è scanzonato come il Brancaleone di Monicelli, ma in fondo ai tanti riferimenti non mostra una paternità definita. E ciò rende ancora più interessante il film di un regista che, contestualmente, firma la fotografia del film di Bellocchio, La bella addormentata. I produttori credono che per Ciprì questo sia soltanto l’inizio.
Nicola Davide Angerame
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