Masaniello nella fabbrica dei sogni. Il Reality di Matteo Garrone
Era l’autunno 2000 e l’Italia impazziva, incollata agli schermi per assistere a quella strana mutazione genetica della televisione rappresentata dalla prima edizione del Grande Fratello italiano. Veniva spacciato come esperimento sociale e affidato a una conduttrice distaccata e dalle arie da intellettuale. Poi, come spesso accade, si è degenerato a tal punto che lo stesso pubblico dopo dodici anni ha deciso di voltare pagina.
Il padre di tutti i reality non è il protagonista del nuovo film di Matteo Garrone, né a esso viene rivolto un banale j’accuse fuori tempo massimo.
E così, come spesso capita a film di spessore con tematiche forti, anche Reality ha pagato il prezzo per ciò di cui tratta: è un film, si è detto sbrigativamente, sul Grande Fratello, sui reality show, sulla tv trash, sull’involgarimento dell’Italia, sulla crisi culturale del Paese. Hanno alimentato ipocrite polemiche la presenza dell’(ottimo) protagonista, un detenuto condannato all’ergastolo, e l’opportunità che questi possa affrontare interviste e passerelle al pari di un divo. Dalla sua presentazione all’ultimo Festival di Cannes, da cui è tornato meritatamente a casa con il Gran Premio della Giuria, di tutto si è parlato tranne che dello specifico filmico.
D’altronde, il livello del dibattito cinematografico italiano raramente prevede incursioni nella poetica e nello stile di un autore. Uno stile, nella fattispecie, sontuoso, riconoscibile, potente, ma mai esibito o fine a se stesso. Esattamente come lo sguardo sui protagonisti e sul loro mondo, visti con stupore, meraviglia, fascino, talvolta con paura, spesso con pietas, ma mai giudicati o condannati. Garrone ritorna all’ombra del Vesuvio per continuare la sua ricerca sull’anima umana in balia dei propri istinti e incapace di vivere e agire onestamente, decretando così la Campania in-felix come luogo d’elezione per raccontare il cuore nero degli uomini e delle donne.
Il modesto pescivendolo Luciano è un moderno Masaniello che si arrabatta con altri lavoretti e si esibisce di tanto in tanto per familiari e amici. E come Masaniello, anche Luciano vuole fare una rivoluzione, personale e privata, compiere cioè quel salto di qualità che possa permettergli una vita agiata. La grande occasione arriva con le fattezze di un reduce dall’ultima edizione del programma, strafatto, fuori di testa, esibito come una celebrità ai matrimoni, nelle discoteche, negli ipermercati. Luciano lo conosce, lo bracca, gli chiede consigli e raccomandazioni fino a sostenere il tanto sospirato provino.
Chiamato a Roma per la seconda selezione, nel colloquio con gli autori e lo psicologo rivela tutto ciò che di sbagliato e di scabroso ha fatto in passato, consapevole non a torto che sia questo quel che loro vogliono. Certo di essere a un passo dall’entrare nella Casa, Luciano si convince di essere spiato dagli autori del programma, costantemente in agguato per osservarlo nel suo agire quotidiano, arrivando persino a dubitare di un grillo volato chissà da dove nella sua abitazione. Decide di spogliarsi dei propri beni e consegnarli ai poveri, come Ingrid Bergman in Europa ’51, persuaso che tale azione possa spalancargli le porte del programma.
Vende la pescheria, si emargina dalla famiglia e dagli amici, si chiude in casa a guardare senza sosta il reality, in attesa della chiamata, immaginandosi in quel contesto, specie nelle orgette riprese a infrarossi durante la notte, che lui guarda incantato. I suoi cari provano a riaverlo con loro grazie all’intervento del parroco prima e del Papa dopo, durante una Via Crucis al Colosseo, tramite un esorcismo collettivo che possa scacciare quel demonio dalla sua anima. Ma nulla può contro quella droga che oramai scorre nelle sue vene. Riesce così a intrufolarsi nella Casa, senza che nessuno si accorga di lui, né i cameraman, né i partecipanti, né il pubblico.
Prima ancora di scegliere la realtà surrogata della televisione, Luciano è già circondato dal finto, dall’innaturale, dall’irreale, come d’altronde suggerisce efficacemente il titolo, che allude allo stesso tempo alla realtà e al suo storpiamento catodico. Reality è infatti un’immersione senza sosta in modeste abitazioni dominate da altarini e arredo kitsch, pacchiani saloni per cerimonie, parchi acquatici abitati da cetacei umani, agorafobici centri commerciali, fumose discoteche, chiesette barocche, luoghi affollati da un’umanità reietta che cerca di divertirsi, di svagarsi, di sfogarsi con l’eccesso, di consolarsi con la preghiera.
Corpi sfatti, esuberanti, tatuati, truccati, alle prese con padelle che friggono e robot da cucina, cornetti e zeppole, caffè e vongole. Come i parenti del protagonista, sovrappeso e strabordanti, ideale coro alla tragedia del loro Ulisse rapito dalle malie della sirena televisione. Solo una zia, Cassandra inascoltata, sembra opporsi dall’inizio a quel salto nel vuoto. Personaggi e situazioni, luoghi e atmosfere che vanno oltre la realtà, iperrealistici nella loro spudorata invasione del grande schermo, una folla di caratteri che travalica la realtà stessa, per affacciarsi al surreale, come il finale del film suggerisce.
Un incipit eccellente – l’agghiacciante matrimonio – e un ottimo primo tempo, un secondo più stanco e poco originale nelle dinamiche di alienazione e dipendenza dalla televisione. Un film disomogeneo nel suo andamento, ma segnato da lunghissimi piani sequenza e movimenti di macchina degni di un Ophüls, e nel quale riecheggiano le lezioni dei grandi maestri del cinema italiano: il disvelamento della realtà nuda e cruda di Rossellini, la tensione morale del Visconti di Bellissima, la capacità di far recitare in maniera naturale e ben integrata tra loro attori professionisti e persone comuni tipica di De Sica, l’attenzione a volti e corpi unici specifica di Fellini. E proprio il fantasma del grande Federico aleggia su buona parte del film. Non solo per le splendide musiche di Alexandre Desplat che richiamano quelle di Nino Rota, ma anche e soprattutto per il desiderio del protagonista di abbandonarsi alla dolce vita della Casa, fatta di luci abbaglianti, specchi nascosti e vuoto assoluto.
E al regno di Fellini e del cinema italiano Garrone dedica una delle sequenze più belle e terrificanti del film, quel magnifico piano sequenza sulla sterminata fila di persone-personaggi in attesa di essere provinati che va a concludersi, in maniera insistita e sgomenta, sul titolo scolpito all’ingresso: Cinecittà. Garrone vi entra e vi esce dall’alto, mostrando stupore e disorientamento nel vedere quei luoghi sacri per chi ami il cinema usurpati dalla cattiva televisione e da interessi che poco hanno in comune col grande schermo. Ma si sa, i film costa di meno girarli fuori Italia e la televisione rende molto di più, grazie alla pubblicità e agli sponsor. La Fabbrica dei Sogni di celluloide produce ora incubi in HD a basso costo. È recente l’annuncio di un progetto di riconversione in un maxiresort. È di poche settimane fa la notizia di un incendio sviluppatosi all’interno del mitico Studio 5, quello dove Fellini ha girato tanti capolavori, e che negli ultimi anni è stato set di programmi televisivi come Amici e Ciao Darwin.
È dunque il cinema che ritorna nel suo regno, registra i suoi spazi usurpati e li rioccupa. Adoperando quei mezzi espressivi che appartenevano a quei signori che dentro quella Città dei Sogni lavoravano un tempo. Per queste ragioni, Reality è un film sul cinema, più che sulla televisione. E ce lo suggerisce un’altra scena all’interno di Cinecittà. Mentre Luciano attende di avere il suo colloquio con gli autori del programma, in secondo piano è visibile una grossa bolla di vetro al cui interno vi sono alcuni aspiranti partecipanti. Subito dietro, sullo sfondo, è possibile scorgere la grande testa di Venusia che dominava i sogni del Casanova felliniano (1976), simbolo della propria Venezia perduta per sempre, emblema del rimpianto e del mistero.
Nel finale di quel film, giaceva in fondo al mare, con gli occhioni spalancati sul nulla. Ora, come un trascurato reperto archeologico, giace nel piazzale d’ingresso seguitando ad averli sbarrati. E sempre sul nulla. Ma preferirebbe, immaginiamo, poterli chiudere per non assistere a quel tipo di reality.
Giulio Brevetti
Matteo Garrone – Reality
Italia | 2012 | 115′
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