La crisi e il noir contemporaneo
Leggere la crisi politico-economica con gli strumenti del cinema e della letteratura di genere. Esperimento che talora dà risultati notevoli. È il caso delle crime story di Dashiell Hammett o di “Cogan” di Andrew Dominik.
Come era accaduto nel sorprendente Warrior (2011) di Gavin O’Connor, anche con Cogan-Killing Them Softly di Andrew Dominik (basato sul romanzo Cogan’s Trade di George V. Higgins) il cinema di genere si dimostra il più adatto a ritrarre il tempo oscuro della crisi, molto più per esempio dei tentativi puramente didascalici e descrittivi che negli ultimi anni hanno cercato di prendere di petto la questione “dall’alto” (l’ultimo in ordine di tempo: Margin Call di J. C. Chandor).
Questo è forse uno di quei casi in cui le strategie di ‘aggiramento’, per così dire, di un tema cruciale funzionano meglio e si dimostrano più efficaci: finora sono ancora molto rari – sia nel cinema hollywoodiano, che in quello indipendente, che in quello occidentale in genere – gli esempi di rappresentazione della crisi nelle sue conseguenze dirette e profonde sul tessuto del quotidiano e sulla vita collettiva in grado di fuoriuscire dalle convenzioni stilistiche degli ultimi vent’anni.
D’altra parte il noir, fin dalle sue origini letterarie – esattamente coincidenti con l’inizio della Grande Depressione (Red Harvest di Dashiell Hammett fu pubblicato proprio nel 1929) -, è strettamente connesso all’esigenza di ritrarre crudamente la realtà sociale attraversata dal disagio, e calata nella dimensione della città e delle relazioni umane che si sviluppano: la crime story, cioè, è quasi un pretesto per l’indagine sociologica e antropologica, condotta con i mezzi narrativi.
Cogan, fin dalle scene iniziali, introduce lo spettatore in un paesaggio urbano devastato, immerso in una luce lattiginosa e sporca, e punteggiato da case abbandonate che sembrano uscite dritte dalle foto di Walker Evans; di riflesso, lo scenario umano che emerge dai dialoghi (e qui la matrice tarantiniana sembra come abrasa e disciolta negli echi di Faulkner e Steinbeck) fatto di disoccupazione, desolazione, frustrazione e assenza di prospettive. L’epoca in cui la vicenda si svolge è l’inizio ufficiale della crisi economica, quel settembre-ottobre 2008 che vedeva in contemporanea la campagna elettorale per le presidenziali americane.
Il collegamento tra i due livelli – la grande economia e la vita di strada – è affidato al continuo contrappunto dei discorsi dei candidati alla presidenza (Obama e McCain), e soprattutto del chiacchiericcio mediatico dei commentatori, che accompagna lo svolgersi della vicenda. Questo contrappunto ha un doppio ruolo: da una parte (didascalica) illustra bene come le due dimensioni presentino il medesimo funzionamento interno e le stesse disfunzionalità; dall’altro (molto più interessante) dimostra la totale inadeguatezza del discorso pubblico istituzionale ad arginare lo squallore dell’esistenza quotidiana in questi luoghi emblematici. La politica è rumore bianco, non intrattiene più alcun rapporto con le azioni e le decisioni di questi individui, così come dei criminali che giocano nella bisca clandestina di Markie Trattman (Ray Liotta) e che vengono rapinati dai due balordi. La politica non tranquillizza né agita: è presente, ma fondamentalmente estranea, e inutile.
In questo contesto, Jackie Cogan (Brad Pitt), killer freddo e umano al tempo stesso – una sorta di Rick Deckard calato invece che nella Los Angeles del 2019 in un universo narrativo post-Soprano, che non conserva quasi nulla della residua grandezza di Tony (anche James Gandolfini è presente nel film, nel ruolo di Micky, il secondo assassino) – si presenta come il “risolutore” per eccellenza, il perfetto pacificatore. Cogan è guidato da una filosofia estremamente pragmatica e da un solido sistema di riferimenti. Ciò che lo contraria maggiormente è il relazionarsi con un mondo criminale che pretende di applicare una mentalità aziendale persino alle sue faccende, saltando a piè pari le soluzioni ‘dure’ ma necessarie, il metodo essenziale ma funzionale della “vecchia scuola”. Mentalità aziendale vuol dire, di fatto, deresponsabilizzazione (individuale e collettiva): è questa la disfunzionalità principale.
Cogan ci sta dicendo che gran parte dei problemi non solo dei piccoli criminali con cui ha a che fare, ma dell’intero mondo occidentale (a ogni livello e in tutti i settori) dipendono e discendono da essa; un sistema di valori fondato sulla delega costante, sul rinvio perenne, sulla non-decisione e sulla rimozione dei rapporti diretti – anche, e soprattutto, di dominio – non può che crollare: “Questo mondo è fottuto: sta arrivando la peste”.
Il ruolo e il destino di Cogan è quello di riportare un po’ di concretezza, un po’ di durezza, un po’ di responsabilità in questo mondo scombinato.
Christian Caliandro
Andrew Dominik – Cogan. Killing Them Softly
USA / 2012 / 97’
killingthemsoftlymovie.com
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