La crudeltà secondo Michael Haneke
Al Festival di Cannes, Michael Haneke ha vinto una Palma d'Oro ormai quasi automatica (e sempre meritata) per “Amour”. Interpretato da grandi vecchi come Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, è un film la cui sinossi appare centrata sui temi della malattia e dell'eutanasia, della vecchiaia e della morte.
Un film engagé inserito nel dibattito sull’eutanasia, un film sull’amore nella sua età, la terza, la meno raccontata. Amour può essere, a prima vista, tutto questo. Tuttavia è soprattutto, nel senso più profondo e nella sostanza, uno spettacolo di teatro della crudeltà. La filmografia di Michael Haneke è spesso detta “cinema della crudeltà” giocando sulle affinità tematiche: il sadismo, la banalità e gratuità del male in Funny Games o Il nastro bianco, il sadomasochismo de La Pianista e così via. Per sezionare la crudeltà di Haneke è ancora più rivelatore riprendere i fondamentali teoretici del Teatro della Crudeltà immaginato e promosso da Antonin Artaud. “Lo spettatore che viene da noi sa di venire a sottoporsi a un’operazione vera, dove sono in gioco non solo il suo spirito ma i suoi sensi e la sua carne. Andrà ormai a teatro come dal chirurgo o dal dentista. Con lo stesso stato d’animo, pensando evidentemente di non morire per questo, ma che è una cosa grave e che non ne uscirà integro”. Quindi per Artaud, come per Haneke, è valida ogni trovata, ogni stratagemma utile a coinvolgere lo spettatore in un’esperienza radicale, fisica, sgradevole che ne ridiscuta convinzioni e (cattiva) coscienza. Purché il chirurgo resti sempre lucido, razionale, integro.
L’incipit di Amour mostra l’irruzione della polizia in un appartamento altoborghese parigino. In una stanza sigillata viene trovato un corpo femminile in stato di decomposizione adagiato su un letto. La telecamera sta compiendo una panoramica del cadavere quando irrompe, con un perfetto straniamento brechtiano, uno stacco sul nero e caratteri in bianco che dicono solo “Amour”. Si tratta del primo di una serie di stratagemmi, sempre al limite della subliminalità, atti a disorientare e far smarrire in una storia insopportabile a proposito del grande rimosso della cultura occidentale contemporanea figlia di Dorian Gray: la malattia, e la sua inesorabilità nel disfacimento psicofisico fino alla morte. Poco dopo, di un concerto di musica classica vedremo solo il pubblico inquadrato affinché sia perfettamente speculare rispetto alla sala cinematografica; siamo passati dall’altra parte, dentro il dramma che sta per dipanarsi assurdamente a partire da un esordio banale. E così agisce l’unico stacco rasserenato (una carrellata sui dipinti collezionati dalla coppia, tutti paesaggi agresti) dopo innumerevoli stillicidi di scene protratte oltre il limite psicologico di sopportazione. Anticipa l’apice drammatico e, come il sollievo del nastro riavvolto a scoprire la finzione scenica della carneficina in Funny Games, è come la mano del boia che interrompe la tortura un istante prima che il suppliziato perda i sensi, per poter ricominciare. Una questione di tecnica, non di pietà.
Haneke applica le modalità del teatro della crudeltà a un racconto che, a differenza degli orizzonti variabili de Il nastro bianco, ha lo spazio del Kammerspiel, evidenzia e sfrutta ogni potenzialità evocativa di un singolo ambiente (un appartamento di cinque locali) e, come solo i grandi Autori, è capace di suggerire l’accumulo affettivo ed emotivo di un’intera vita condivisa dall’affastellarsi di libri, fotografie, compact disc sugli scaffali stracolmi che saturano le pareti.
È il minimalismo luterano che avvicina il regista austriaco ai grandi maestri nordici come Carl Theodor Dreyer e Ingmar Bergman: sviluppare ogni potenzialità di una trama semplice, di un ambiente raccolto. Mostrare tutto ciò che si può – e deve – mostrare e nient’altro. In questo senso il cinema di Haneke è opposto a quello dell’altro grande sadico del cinema attuale, Lars Von Trier. Non ci sono trovate, effetti speciali, cialtronerie fracassone (abbondanti soprattutto negli ultimi Antichrist e Melancholia). Il sadismo “cattolico” di Von Trier mirato a suscitare senso di colpa e inadeguatezza, a stigmatizzare la sessualità e le donne, a simpatizzare con un Male vindice che faccia trionfare la Morte su un’umanità dannata si ribalta nella prospettiva adulta da entomologo del Male del quale non interessa fornire una dissertazione ma un’esperienza.
Non sappiamo se la poetica autoriale (che compone uno sviluppo formale e tematico coerente) di Michael Haneke abbia raggiunto in Amour il massimo grado di efficacia, probabilmente già soddisfatto da opere impeccabili come Funny Games e Il nastro bianco. Sicuramente si tratta del massimo grado di concentrazione e rarefazione. E ancora una volta un’esperienza estrema, senza concessioni e senza via di scampo.
Alessandro Ronchi
Michael Haneke – Amour
2012 | Austria-Francia-Germania | 127′
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