Il velo di Maya
La più grande caccia all’uomo della storia nell’ultimo film di Kathryn Bigelow. La ricerca di Osama Bin Laden come specchio della solitudine e di una società che costruisce contraddizioni.
“I’m the motherfucker that found this place”, risponde lei, fulva, nervosa, quando le viene chiesto chi sia durante una riunione di alti vertici militari. Lei è Maya, giovane e risoluta agente della Cia impegnata nella ricerca di Osama Bin Laden. Il “posto” è la casa di Abbottabad, Pakistan nordorientale, dove l’ideatore degli attentati dell’11 settembre sarebbe nascosto assieme ai familiari. Arrivata lì per collaborare con un’unità scelta dell’intelligence, Maya compirà un percorso inverso a quello del collega torturatore che decide di allontanarsi da quell’inferno e di lavorare in ufficio a Washington, trasformandosi in inflessibile e indomita Erinni.
I primi tre quarti dell’ultimo film di Kathryn Bigelow, Zero Dark Thirty, consistono nell’incessante ricerca dell’uomo più odiato d’America, attraverso riunioni, interrogatori, pedinamenti, confronti fotografici, intercettazioni. E lunghe, tormentate riflessioni personali. Perché la caccia a Bin Laden è in realtà un modo per riempire la solitudine da parte di alcuni agenti scelti della Cia, dedicarsi completamente, giorno e notte, per anni, alla ricerca del nemico. Bin Laden diviene così un pretesto, un modo per esistere, per Maya e per i suoi colleghi, sprovvisti di una vita personale o affettiva. E non solo perché non possono, ma perché probabilmente non ne sarebbero capaci. Qualche istante prima della deflagrazione dell’Hotel Marriott, quando la collega Jessica le chiede se abbia un amante o almeno degli amici, il silenzio di Maya risulta più rumoroso dell’improvvisa esplosione che le coinvolge ma da cui riescono a scampare.
L’ultimo quarto della pellicola è incentrato sull’assalto alla palazzina di Abbottabad il fatidico 2 maggio 2011 a mezzanotte e mezza da parte dei Navy Seals, seguito col fiato sospeso in diretta dagli uomini dell’intelligence. Maya aveva dunque ragione. Bin Laden era lì dove lei aveva ipotizzato che fosse e alla fine, riconosciuto dentro un sacco subito richiuso, non le resta che piangere, mentre ritorna a casa, senza più un obiettivo, senza più il nemico che le riempia le giornate. Lacrime di sollievo o di paura? In fondo, Maya sembra essere una di quelle scimmie in gabbia che compaiono nei primi minuti del film e che sintetizzano tanto la condizione degli inseguitori, chiusi nei loro uffici e nelle residenze blindate, quanto quella del rintanato Bin Laden, così come quella dei prigionieri delle Twin Towers l’11 settembre e dei terroristi torturati dagli americani.
Tutto, in Zero Dark Thirty, rasenta l’eccellenza, dall’elegante fotografia al montaggio teso, dalla sceneggiatura, in perfetto equilibrio tra fedele ricostruzione dei fatti e innesti drammaturgici, alla recitazione, dominata dalla magnetica Jessica Chastain. E ovviamente la regia, acuta, asciutta, attenta a stabilire le relazioni tra i personaggi e lo spazio, a eliminare il superfluo, a suggerire un mondo intero in dettagli accennati, come le scarpe che spuntano sotto un burqa o la foto intravista sul desktop di un computer. Nessuna esplicita o rassicurante condanna della tortura, ma presa d’atto della sua esistenza e, in certi casi, della sua efficacia pur di arrivare alla verità. Basti notare lo sguardo eloquente di Maya e dei suoi colleghi quando ascoltano alla televisione Barack Obama appena eletto Presidente affermare che le violenze non saranno più tollerate. Un’opera, dunque, che rifiuta il manicheismo, che mette il dito nella piaga di una materia scottante, che non ha risposte consolatorie ma pone domande, si interroga su dieci anni di caccia al nemico, e conferma la grandezza della sua Autrice. Chi seguita ad accusarla di tronfio patriottismo e di visione destrorsa non ha tragicamente capito nulla.
Giulio Brevetti
Kathryn Bigelow – Zero Dark Thirty
USA | 2012 | 157’
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