Storie di donne alla Berlinale
Prosegue a tappe forzate il festival del cinema tedesco. Domenica giornata all’insegna delle donne. E con un film che strizza l’occhio al mondo dell’arte, ma con risultati piuttosto deludenti.
Si è aperta con il film di Sebastian Lello, dal titolo Gloria, la domenica della Berlinale, dove il tema portante sembra essere stato la ricerca di libertà di personaggi femminili. Il film spagnolo, che già ha ricevuto un riconoscimento al Festival di San Sebastián, sembra aver convinto la stampa, anche perché la programmazione fino a questo momento è stata piuttosto debole.
Gloria è una donna di quasi sessant’anni, ha figli e un lavoro e un matrimonio fallito alle spalle. Gloria non vuole stare da sola e passa le sue serate in locali per single maturi consumando alcolici, fumando hascisc alla ricerca di un piacere fugace che ogni volta la lascia più vuota. La cinepresa di Sebastian Lelio segue la sua protagonista e ne mette a nudo ansie, tic e desideri. Se da una parte coinvolge empaticamente lo spettatore coi limiti del personaggio (il suo essere giovane in un corpo di vecchia ben conservato, il desiderio perenne dell’essere umano di sentirsi vivo), dall’altro ridicolizza gli atteggiamenti della signora di mezza età con velleità adolescenziali con un movimento che dal comico passa alla tragedia senza soluzione di continuità e ricorda molto un noto saggio di Pirandello. Funziona perfettamente in questa cornice anche il contrappunto musicale romantic-kitsch con l’apoteosi finale dell’omonimo brano di Umberto Tozzi.
Il film più importante della giornata è stato comunque La Religieuse di Guillaume Nicloux, grazie anche alla presenza di Isabelle Huppert nel cast, stendardo dei festival intellettual-chic. Bel compitino per il regista che proviene dalla televisione e riadatta la sceneggiatura da un romanzo di Diderot. Susanne Simonin è rinchiusa in un convento contro la sua volontà perché la sua famiglia è caduta in disgrazia e la madre le confessa di averla concepita nel peccato. La giovane interprete, Pauline Etienne, cala bene nei panni della monachella alla vestizione che cerca disperata la strada per fuggire al suo destino. Nel suo cammino alla riconquista di se stessa perde le persone più care, diventa oggetto di privazioni e punizioni della madre superiora, trasferitasi in un altro convento viene coercizzata da un’altra potente monaca lesbica (la Huppert in declinazione buffa). Infine viene ritrovata dal vero padre con un happy ending poco convincente. Il problema è nell’intensità che non raggiunge mai alte vette, se non in presenza della “garante-Huppert”, che da sola non fa il film. Simonin, piuttosto, con i continui sguardi penosi instilla quasi una certo sadismo. La struttura narrativa è molto ben architettata e del resto si attiene molto al romanzo. Buone le scenografie e i costumi, di una bellezza quasi pittorica.
Personaggi molto più bizzarri per l’altro francese in competizione, Vic + Flo ont vu un ours di Denis Coté. Due lesbiche ex galeotte si uniscono per una vita semplice nel cuore della foresta canadese, ma le vicende si complicano presto con una serie di personaggi ambigui che mettono a repentaglio i piani della coppia. Va infine segnalato il film della sezione Panorama, Maladies, del regista che si fa chiamare solo Carter. Lui che come pittore, scultore e artista ha già esposto in importanti musei come il MoMA e il Whitney di New York, sceglie come protagonista James Franco (in perenne stato di grazia), con cui aveva già lavorato nell’esperimento Erase James. L’idea era molto interessante: presentare una famiglia atipica, in un periodo non ben identificato a cavallo tra gli Anni Cinquanta e Sessanta e sfruttare una voce narrante dal tono antropologico per costruire su una struttura a capitoli. Il progetto non è riuscito. Parte del pubblico si è alzata annoiata, nonostante l’altra accattivante interpretazione di Caterina Keener, convincente e azzeccata. Quello che soprattutto infastidisce è la pretenziosità accuratamente camuffata da un contesto fintamente naïf. Notevoli le trovate narrative, la caratterizzazione della follia seria e presunta dei personaggi: un ex attore che non finisce mai il suo romanzo, distratto ogni volta da una nuova ispirazione; una pittrice esaurita che ama travestirsi da uomo; una sorella pazza che vaga per casa con parrucche malmesse e trucco pesante; infine un vicino gay dalla lacrima facile. Indovinato anche il racconto in prima persona sui titoli di coda che il protagonista fa per parlare della sua ossessione per lo squillo del telefono. Pellicola piena di potenzialità. Ma solo di quelle.
Federica Polidoro
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