Skyfall, ovvero James Bond apocalittico
Il reboot è divenuto il trend di punta nel cinema contemporaneo, sempre più a corto di idee del tutto fresche, almeno sul versante hollywoodiano. Il reboot è un’operazione ibrida, che si situa a metà strada fra remake, prequel e sequel. È una completa e profonda “reinizializzazione” del personaggio e della mitografia costruita nel tempo attorno a esso.
Il reboot è una rifondazione del protagonista (eroico o supereroico, fumettistico o epico) su nuove basi, più adatte a intercettare la sensibilità contemporanea. È un fatto che il reboot in assoluto più riuscito e di successo degli ultimi tempi sia stato il Batman di Christopher Nolan, al punto da giungere a costituire in brevissimo tempo un valido modello per analoghe operazioni, più o meno riuscite (The Amazing Spiderman & Co.). Va da sé che anche questo nuovo 007 di Sam Mendes è stato accostato sin da subito al Cavaliere Oscuro, come spirito e come atmosfera generale (molto meno, ad esempio, è stata sottolineata l’importanza del Frank Miller Anni Ottanta per quanto riguarda lo stesso Nolan).
Ma l’intervento di Mendes è, se possibile – e al di là delle stesse apparenze -, ancora più coraggioso. Se infatti Nolan lavora e scava in maniera filologica sull’identità profonda del personaggio di Bruce Wayne, eliminando accuratamente tutte le incrostazioni pop Anni Novanta e muovendosi in definitiva tra “ritorno alle origini” e prosecuzione della propria personale poetica, il regista di American Beauty (1999), Era mio padre (2002), Jarhead (2005) e Revolutionary Road (2008) sottopone James Bond a una vera e propria torsione narrativa. La quale non ha mancato ovviamente di deludere i fan della prima ora – quelli dello 007 tutto spacconate, conquiste e battute cretine -, offrendo però aspetti di indubbio interesse.
A partire infatti dai folgoranti titoli di testa, Bond viene calato suo malgrado in territori assolutamente a lui non familiari né congeniali: il senso di catastrofe e fine, l’inadeguatezza, la sconfitta, l’inevitabilità e l’inesorabilità del tempo che passa. Ed è proprio questo che rende tutta la faccenda elettrizzante. L’agente segreto è sottoposto a una pressione molto diversa da quella delle pallottole, dei cazzotti e degli inseguimenti: la pressione psichica dovuta al non essere all’altezza del compito assegnato, al non essere più adatto a un contesto mutato, a un mondo fattosi inconoscibile e irriconoscibile riesce ad essere molto più debilitante.
Ed è, in fondo, proprio questa la prospettiva – una delle prospettive – attraverso cui leggere l’intera narrazione: dopo il disorientamento, Bond capisce che l’unico modo di cavarsela e di portare a termine la “missione” (anche se poi, dietro le cortine fumogene e il Graal di una chiavetta Usb con una lista di nomi, la vera missione consiste nel ritrovamento della propria identità) è trascinare nemico e condizioni avverse sul proprio territorio di lotta. Rifiutare cioè la linea retta dei continui aggiornamenti, degli adeguamenti progressivi a sensibilità sempre più sfumate e ironiche, per “deviare” e deragliare verso il proprio passato.
Quello che potrebbe passare per l’ennesimo ritorno alle origini (la Aston Martin, la colonna sonora Anni Sessanta…) è in realtà semplicemente un veicolo. Il passato è al tempo stesso più maestoso, più arcaico e più misterioso di quello che fanno intravedere i semplici riferimenti auto-citazionisti. Perché la tenuta di Skyfall (nomen omen…) è davvero “la casa del padre”, in un senso che va molto oltre quello letterario: solo riappropriandosi di un passato pre-moderno, e ricostruendo tutto il sistema di valori che lo regola, James Bond può condurre la sua battaglia contro una realtà tecnologica, virtuale, immateriale, fredda che egli percepisce istintivamente come aliena, distante da sé, e decisamente ostile alla propria sopravvivenza. “Una pistola e una radio”: tanto gli consegna Q. di fronte al dipinto di Turner che descrive metaforicamente la sua stessa condizione, e tanto gli basta.
Questo passato personale e culturale va recuperato e interiorizzato per essere immediatamente distrutto nelle sue sopravvivenze: la scena della brughiera nella notte, illuminata dai riflessi della casa incendiata, è permeata di una miriade di sensi apocalittici e aperture future. In fondo, se un rimprovero si può muovere a Sam Mendes, è proprio quello di non aver spinto l’acceleratore ancora più a fondo, rendendo meravigliosamente radicale l’intera operazione. Ma, si sa, il cinema blockbuster ha limiti rigidissimi, violabili solo fino a un certo punto, e non oltre.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #11
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