Da Boris Vian a Michel Gondry
“L’écume des jours” è il nuovo film di Michel Gondry. Una pietanza prelibata preparata con cura, dal retrogusto un po’ amaro. Si consiglia di accompagnare la degustazione con una ballata blues di Duke Ellington.
C’erano una volta Colin e Chloé. Colin incontra Chloé. Chloé è bella, dolce e fragile. Colin s’innamora di Chloé. Chloé soccombe allo charme tenero e un po’ imbranato di Colin. Colin è ricco e può permettersi uno stile di vita agiato senza bisogno di lavorare. Colin e Chloé sono felici insieme. Chloé si ammala. Colin deve lavorare per curare Chloé. Colin finisce i soldi. Chloé muore. Fine.
Un impianto narrativo facile, alquanto scontato, neanche tanto coinvolgente. Eppure è alla base del romanzo di culto che ha stretto un nodo in gola a intere generazioni di adolescenti dal 1947 a oggi: L’écume des jours di Boris Vian. Un artista poliedrico: scrittore, poeta, paroliere, cantante, critico e musicista di jazz (trombettista, per la precisione). Una penna sfrenata. Una mente geniale. Soltanto un autore come Michel Gondry poteva osare l’ardire di confrontarsi con un tale mostro sacro.
L’ecume des jours, in particolare, è tra i suoi testi più controversi ma anche il più amato. Completamente ignorato dalla critica e dal pubblico al momento della sua pubblicazione, è diventato un classico studiato a scuola dai ragazzi francesi. Reputato impossibile da tradurre cinematograficamente a causa dei troppi giochi di parole, del troppo surrealismo, del troppo Jean-Sol Partre. Ma Gondry sembra aver bandito la parola ‘impossibile’ dal suo vocabolario. Con il suo percorso fatto di musica, di poesia e di bricolage, era in effetti il candidato ideale per portare sullo schermo appartamenti che rimpiccioliscono, oggetti che prendono vita e gambe che si allungano per ballare il “biglemoi” (la danza che Colin impara per sedurre Chloé su arie di boogie-woogie).
Suo nonno, Constant Martin, è l’inventore del Clavioline, uno dei primissimi sintetizzatori, nel 1947 (una sorta di parallelo del pianocktail di Colin). Suo padre era un grande appassionato di jazz, un pianista e un organista dilettante. Cresciuto negli Anni Settanta e Ottanta nella periferia ricca di Parigi, lo stesso Gondry bazzica le prime gallerie commerciali e respira la cultura pop di quegli anni, si nutre di MTV, di punk e di New Wave (Cure, Siouxsie and the Banshees).
Non è un caso d’altronde se inizia la sua carriera nei videoclip musicali, primi tra tutti quelli di Björk (una ricca collaborazione che comprende titoli quali Bachelorette, Human Behaviour e Isobel) ma anche dei Rolling Stones o dei White Stripes. Nel suo uso del morphing per inframmezzare i tragitti della telecamera o per trasformare i video in oggetti astratti, Gondry usa la camera come una bacchetta magica a forza di combinazioni matematiche e, come un Méliès o un Marey del giorno d’oggi, incanta il pubblico con i suoi mondi onirici.
Già in The Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) si crogiola tra i lembi incerti che si creano alla superficie del sonno e nelle profondità dell’intelligenza umana. Una credenza ingenua e commovente nella verità e nella perennità dei sentimenti abitano il racconto. Joel, distrutto dalla fine della sua storia d’amore con Clementine, si rivolge alla società Lacuna, capace di cancellare dalla memoria ogni traccia della loro relazione. Ma mentre i ricordi sfilano uno a uno, scomparendo per sempre, l’immenso Jim Carrey riscopre quello che lo legava alla sua anima gemella e si batte con tutte le sue forze contro l’inevitabile erosione. Il film si svolge tutto dentro la testa del protagonista e il montaggio a ritroso dei ricordi di Joel scandisce il tempo della narrazione e della visione.
Con L’ecume des jours Gondry spinge l’esperimento all’estremo: qui tutto varia e si trasforma secondo l’umore e i sentimenti dei personaggi. Finanche la scenografia si “consuma” con l’avanzare della malattia di Chloé. Proprio la scenografia, lungi dall’essere un semplice elemento d’arredo, riveste un ruolo fondamentale nel racconto, è parte integrante della storia, un personaggio a se stante. Sia il romanzo di Boris Vian che il film di Gondry sono zeppi di gadget, primo fra tutti il pianocktail, un pianoforte che fabbrica cocktail a seconda delle note suonate. A ogni accordo corrisponde un liquore, un aroma, un ingrediente. Ogni melodia dà quindi vita a una miscela originale. O ancora la cucina dove Nicolas (Omar Sy) prepara fantastici banchetti, tutti fabbricati in tessuto nel film. Il forno, il frigo, la tv sono “finestre” da cui Alain Chabat (celebre attore e presentatore francese) interagisce con il cuoco, una sorta di personificazione di Master Chef direttamente nella vostra cucina.
Ad abitare questo modo bizzarro e un po’precario, dove Gondry privilegia le costruzioni “fatte in casa” agli effetti speciali digitali, una pleiade di personaggi stravaganti eppure umani, troppo umani. C’è Chick, il migliore amico di Colin, appassionato sfrenato delle teorie di Jean-Sol Partre, pronto a rovinarsi per entrare in possesso di ogni “emanazione” del filosofo nonostante i molteplici nonsense della sua dottrina (aperta satira dell’esistenzialismo di Sartre). C’è Nicolas, fedele aiutante di Colin, suo braccio destro, cuoco, chauffeur e soprattutto immenso seduttore di cui tutte le ragazze s’innamorano perdutamente. E poi, ovviamente, ci sono Colin e Chloé. Colin (Romain Duris), principe azzurro dei tempi moderni, pronto a ogni sacrifico per la sua amata, grande appassionato di jazz. Nel libro, sin dalle prime pagine, è paragonato a un bebè: “Era quasi sempre di buon umore, il resto del tempo, dormiva”. Chloé (Audrey Tautou), dal canto suo, incarna la bellezza e la femminilità. È la donna perfetta, giovane, bella, dolce e attraente, ma fragile. Chloé morirà di una ninfea che le cresce nel polmone. Il suo nome deriva da una canzone di Duke Ellington: Chloe (Song of the Swamp).
Il jazz è un altro filo conduttore del racconto, una passione che unisce Gondry a Vian: oltre al Pianocktail, un’altra notevole invenzione musicale è il lettore di dischi che, con un trucco di montaggio degno della serie tv Sabrina vita da strega, trasforma un vinile in quattro. Quasi a significare che la musica jazz ha bisogno di una diffusione decuplicata per esprimere tutta la sua polifonica intensità.
E poi c’è Parigi. Dopo tanti film girati e prodotti a Hollywood, finalmente Gondry si concede un film in patria. Il regista si riappropria della città ma allo stesso tempo rimane spettatore, un turista venuto da un altro cronotopo. Tutto è cosi familiare eppure cosi diverso, estraneo. Parigi è ritratta in un immaginario vintage tipico degli Anni Cinquanta e allo stesso tempo irrigata da un’oscurità tutta contemporanea. È emblematica la scena in cui Colin e Chloé planano al di sopra della città, seduti in una nuvola panoramica retta da una gru. Il tempo è sospeso. La costruzione della scena lascia presagire un momento di grande dolcezza. Una canzone sentimentale prova a fare da colonna sonora. Ma viene interrotta di continuo da interferenze e malfunzionamenti dell’apparecchio radio. Le gru fanno da sfondo. Gli eroi volano sul quartiere delle Halles, che attualmente è un cantiere a cielo aperto: “The Halles is a trou again”, dice Chloé (è l’unico ancoraggio cronologico al giorno d’oggi in tutto il film).
Tutto è in contrasto, in dissonanza. Eppure tutto convive tumultuosamente e meravigliosamente insieme. Come nella mente di questo cineasta dove l’estetica dei sentimenti si traduce in immagini fantasmatiche dal retrogusto un po’ amaro con, in sottofondo, una ballata blues di Duke Ellington. Una spuma soave e spossata è tutto ciò che resta, alla fine, del vago ondeggiare di questo mondo incongruo e svitato che è L’écume des jours.
Martina De Fabrizio
Michel Gondry – L’écume des jours
Francia | 2013
www.lecumedesjours-lefilm.com
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