Cruising: sulla scomparsa del protagonista
Un Al Pacino infiltrato nella comunità gay di New York è il protagonista del film "Cruising" di William Friedkin, distribuito nel 1980. Una pellicola e un personaggio esemplari per capire come il soggetto scompaia in certa cinematografia. Una dissoluzione del Sé che parte da Antonioni e arriva a Bruce Willis.
Cruising (1980) di William Friedkin è una di quelle opere che, anche a distanza di più di trent’anni, continua instancabilmente e incessantemente a interrogarci.
Protagonista è Steve Burns (Al Pacino), mite poliziotto incaricato di infiltrarsi nella comunità omosessuale per scoprire l’assassino: Friedkin usa la struttura del thriller come un pretesto per indagare la dissoluzione interna del soggetto, e l’intero svolgersi del racconto coincide con questo percorso di disintegrazione personale. Tutto ruota attorno alla domanda chiave del capitano del dipartimento, posta nella scena iniziale: “Che ne diresti di scomparire?” gioca sul doppio senso di ‘cruising’ (‘pattugliare’ e ‘battere il marciapiede’), mentre ‘to disappear’ in gergo poliziesco sta per ‘infiltrarsi’. Il cruising in questione, dunque, è un movimento continuo da un’identità a un’altra, fino alla scissione e alla perdita del Sé.
L’esplorazione sotto copertura della sottocultura gay di una New York oscura e minacciosa compiuta da Steve Burns (fino al punto estremo di confondersi completamente con essa) è emblematica di un percorso che parte da lontano e che investe la figura del personaggio nel romanzo e nel film del XX secolo.
Ciò a cui si assiste qui è, di fatto, la conclusione del processo evolutivo/involutivo – una progressiva rarefazione che è anche in fondo un’abdicazione – a cui è sottoposto il “personaggio-uomo” di cui parlava Giacomo Debenedetti negli Anni Sessanta: “È dunque già cominciata, per il personaggio-uomo, una vita grama: lo si trova intatto solo nel punto in cui il circolo chiude il circolo e l’inizio coincide con la fine. Egli appare, gli viene imposto un nome e uno stato civile, poi si dissolve in una miriade di corpuscoli che lo fanno sloggiare dalla ribalta, è richiamato solo nel momento in cui serve a incollare i suoi minutissimi cocci”. E ancora: “Così, quando il romanziere impone un nome proprio ai suoi personaggi, sospettiamo l’arbitrio, che Robbe-Grillet cerca di sventare, battezzandoli con le lettere dell’alfabeto. E delle particelle il fisico conosce solo i nomi collettivi (pioni, positroni ecc.), ma non si sogna di distinguere con un appellativo specifico quel particolare pione o altro, che sta osservando nella camera a nebbia. […] L’unico rapporto diretto che possa istituire con loro è visivo, quando guarda o fotografa le scie del loro passaggio: anche lui, dove racconta o descrive, fa parte di una ‘école du regard’” (Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, 1965).
Il tema centrale è dunque quello dello sguardo, della visione che sostituisce l’azione identificandosi con essa, come avviene regolarmente in periodi di accanito sperimentalismo manierista. Del resto questi autori (lo stesso Friedkin, ma anche Martin Scorsese, Michael Cimino, Brian De Palma o il Francis Ford Coppola de La conversazione, 1974) sono profondamente imbevuti di cultura cinematografica francese e italiana. Oltre che nella nouvelle vague e in quell’oggetto misterioso che è La Jetée (1962) di Chris Marker, questo stesso strano fenomeno di dissoluzione/dissolvenza è infatti pienamente all’opera anche, ad esempio, in film come L’eclisse (1962) e Deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni, che insegue l’equivalenza sostanziale, dal punto di vista sia formale che narrativo, tra personaggi umani ed elementi del paesaggio naturale e urbano. Quella dell’“incomunicabilità” è innanzitutto una strategia descrittiva del protagonista che si dissolve, declinata in opere che sono a tutti gli effetti “antiromanzi” cinematografici.
Echi successivi e, per così dire, narrativamente “secolarizzati” di questa mutazione si potrebbero riconoscere nei personaggi “stupidi” e psicologicamente evanescenti di Quentin Tarantino (il pugile Butch in Pulp Fiction, 1994); nel James Cole de L’esercito delle dodici scimmie (Terry Gilliam 1995), irrisolto – perché impossibile – remake de La Jetée; o nel dottor Michael Crowe del Sesto senso (1999) e nell’Elijah Price di Unbreakable (2000) di M. Night Shyamalan. Tutti protagonisti, è bene sottolinearlo, incarnati da Bruce Willis, vera “persona” del personaggio che scompare, che evapora tra fine Anni Novanta e inizio Anni Zero. Ma questa è decisamente un’altra storia.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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