Nicolas Winding Refn. Dell’arte e dell’ergonomia
Uscito nelle sale italiane dopo un'accoglienza cannense che ha a dir poco diviso pubblico e critica, “Solo Dio Perdona” sfida lo spettatore, i generi e le categorie filmiche. Offuscando confini e ridefinendo quell'oggetto misterioso che chiamiamo “cinema”.
Nicolas Winding Refn (Copenhagen, 1970) è un cineasta complesso, forse compulsivo, che ha il pregio di aver sostenuto fin dagli esordi una visione del cinema e una poetica del tutto personali, ponendosi in una posizione alternativa rispetto al cinema danese contemporaneo più sperimentale, quello del manifesto Dogma 95 di Vinterberg e Von Trier, di cui comunque recupera alcuni aspetti formali e di contenuto. Ed è proprio la sua alterità a mettere in discussione lo statuto del cinema contemporaneo, fatto di una “politica degli autori” (e dei critici…) spinta alle sue più estreme conseguenze.
Ma andiamo con ordine: Solo Dio Perdona ha ricevuto un’accoglienza bipolare al Festival di Cannes, segnata da fischi e applausi. Una punteggiatura della ricezione certamente molto forte: il film ha colpito con risolutezza gli spettatori sotto la cintola, li ha costretti a una scelta di campo. Lo spunto narrativo del film è apparentemente semplice: Julian (Ryan Gosling), proprietario di un club di thai boxe, viene risucchiato in un vortice di sangue e vendetta in seguito alla morte del fratello. La madre (una superba Kristin Scott Thomas) arriva a Bangkok con lo scopo di vendicare il figlio, con esiti incontrollabili. Ma il vero tema del film non è la violenza fisica quanto quella simbolica: Julian vive un rapporto incestuoso con la madre e la sua – quella simbolizzata quasi ossessivamente nel corso del film – è una castrazione simbolica altrettanto violenta. La storia è ridotta alla semplicità più assoluta, come sempre in Refn: a disarmare molti spettatori è stata invece la forma del film, fatto di suggestioni visive, frammenti e motivi di una violenza gratuita e ingiustificata che coinvolge i personaggi del film.
Come a Cannes, così in Italia: Refn divide pubblico e critica perché rifugge dalle logiche tradizionali del cineasta-autore, pur beneficiandone al punto da diventare un vero e proprio brand. Marchio di fabbrica quanto mai poliedrico, se si considera la distanza fra la trilogia di Pusher, che ha lanciato il regista, il cinefilo Bleeder, l’hollywoodiano (ma non troppo) Drive e quest’ultima, misteriosa creatura. Alcuni sono i temi comuni, in primis la violenza e l’autoaffermazione dell’uomo, di ascendenza nietzscheana. Ma l’ultima opera del regista danese ha diviso proprio per il fatto di aver portato al pettine i nodi di un discorso molto più ampio, che non riguarda solo il cinema e che anzi è fenomeno pervasivo dell’arte contemporanea tout court: il concetto di autore e il rapporto fra arte e design.
Refn è un “autore”? Certamente ha tematiche favorite e una spiccata sensibilità stilistica. I suoi film sono pastiche stilistici stratificati, fatti di citazioni, disinvoltura nel controllo del tempo filmico e motivi coloristici (le dominanti rosse, blu e bianche che istituiscono veri e propri film nel film, registri indipendenti nel grande spartito dell’opera) e musicali. Solidi e insistiti i riferimenti cinefili, dal cinema di genere italiano a Lynch, da Jodorowsky a Walter Hill. Eppure, secondo alcuni, è legittimo metterne in discussione l’autorialità: è sufficiente “firmare” la propria opera per istituire un territorio privilegiato dove tutto è legittimo in quanto ascritto a una poetica personale? Il rischio è quello di un gioco sterile e autoassolutorio, un impressionismo del cinema che si riflette in quello di una critica (e una pratica spettatoriale) che si lascia lusingare con facilità dalle sirene del postmoderno e del neobarocco.
Domanda, quella sull’autorialità di Refn, a cui è difficile dare una risposta definitiva. Se ne aggiunge un’altra: l’opera di Refn ha più a che fare con l’arte o con il design? Ed è legittima la distinzione tra la prima e il secondo? Quello che il cineasta danese costruisce nei suoi film è un regime percettivo seduttivo, maniacale, ergonomico. Una bella forma che è parte integrante del contenuto del film: in Solo Dio Perdona, il rosso del sangue è la forma della violenza, lente colorata attraverso cui filtrare il mondo. E la castrazione simbolica – le mani tagliate, legate, inibite – raccontano quello che nessun personaggio può dire. Ma il discorso pare sempre incompiuto, si ferma (volutamente) un attimo prima di una conclusa riflessione sul proprio lavoro, di un pensiero articolato sul cinema e sul mondo. Design percettivo, o forse una forma di videoarte. Videoarte e cinema: un altro confine convenzionale che il regista sfida e offusca.
Al di là del risultato e della riuscita di quest’ultimo film, Refn ha creato un oggetto audiovisivo che ha il merito innegabile di mettere a nudo l’attitudine e la sensibilità dello spettatore, spiazzato dalla provocazione di un cinema ribelle (ma è davvero ribellione? Altre domande, altre risposte…) che lo aggredisce e si prende gioco delle sue aspettative.
Alessandro Gaudiano
Nicolas Winding Refn – Solo Dio Perdona
Francia-Danimarca-Tailandia / 2013 / 90’
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