Welcome Oblivion
Terminata la sbornia apocalittica Maya oriented, le pellicole fine-del-mondo tornano a puntare sulla distopia. Il caso più eclatante degli ultimi mesi è “Oblivion” di Joseph Kosinski. che mostra come i problemi (cinematografici e non solo) restino sempre gli stessi.
Sarà un caso ma, mentre il 2012 è stato preceduto da una ridda di film variamente apocalittici, una volta passata la sbornia da Maya negli ultimi tempi si è assistito all’emersione di un nuovo mini-filone, che preferisce declinare la “fine del mondo” in chiave più distopica: ne fanno parte a pieno titolo l’interessante The Hunger Games (2012) di Gary Ross, basato sul romanzo omonimo (2008) di Suzanne Collins, e Tron: Legacy (2010) di Joseph Kosinski.
Lo stesso Kosinski ha sfornato il sontuoso Oblivion, basato su una sua graphic novel inedita. Certo, questi giocattoloni mainstream hanno sempre il solito problema: a partire dalla metà esatta, le ambizioni si confondono e la trama si sfilaccia, perché due o addirittura tre linee narrative insistono ad annodarsi e intrecciarsi. È la solita confusione tra complicazione e complessità. Non sarebbe meglio per tutti se questi oggetti andassero al sodo, rimanendo secchi e solidi dall’inizio alla fine, invece di caricarsi indefinitamente? Che cosa sarebbe successo, infatti, alla storia di Oblivion se non ci fosse nessuno Scavenger alieno, ma la rovina dell’intero pianeta fosse causata dall’umanità stessa che si è rivoltata contro se stessa?
La casa nell’Eden naturale e “paesaggistico” in cui il protagonista Jack Harper si rifugia dalle fatiche della post-apocalisse è del tutto irreale, finzionale. Da reality show. Non piove mai lì? Fa sempre tanto caldo da farsi bastare solo quattro legnetti e quelle tendine mollemente appese? Questo è un sogno che viene da ieri, dal passato: dal nostro passato, dal passato di Kosinski e di noi spettatori. Non è solido, non è realistico: non è un progetto culturale. A differenza, ad esempio, di un film di fantascienza come Silent Running (2002: la seconda odissea, 1971) di Douglas Trumbull, incompresa parabola ecologica e umanistica e all’epoca, naturalmente, un flop al botteghino.
Oblivion stesso si comporta, in definitiva, esattamente come Jack: non riesce ad attingere realmente e realisticamente ai suoi ricordi (nel caso di Jack: la vita prima dell’invasione, il sogno di una moglie sconosciuta che lo ossessiona di notte; per il film: il grande cinema catastrofico e distopico degli Anni Settanta); a trasformarli nella materia della sua azione e del suo intervento nel mondo, nel momento stesso in cui li dichiara, li espone e addirittura li esibisce.
“Le rovine sono il culmine dell’arte”, scrive Marc Augé in Rovine e macerie (2003), “nella misura in cui i molteplici passati ai quali esse si riferiscono in modo incompleto ne raddoppiano l’enigma esacerbandone la bellezza. […] La bellezza dei nonluoghi (aeroporti, autostrade, supermercati ecc.) non dipende dalle loro intrinseche qualità estetiche, ma dal cambiamento di scala che vi si esprime. Gli spazi del codice rivelano l’assenza di ogni simbolismo. Al loro interno ci sentiamo soli, sperduti, di volta in volta liberati o esaltati (libertà provvisoria, esaltazione passeggera). […] La coscienza della mancanza si è spostata: essa non riguarda tanto un senso perduto, quanto un senso da ritrovare”.
Si tratta dell’estremizzazione della dialettica fra “troppo pieno” e “troppo vuoto”. C’è sempre, infatti, un doppio livello in questi spazi ricostruiti nella loro distruzione, lo stesso doppio livello riconoscibile in molti paesaggi urbani del presente: l’efficienza spettacolare e l’assenza, il vuoto, la penuria (della crisi, evidentemente). Sono queste le rovine contemporanee? Ci suggeriscono forse la forma del tempo attuale, il “dietro” delle cose, ciò che sembra sfuggirci e venire nascosto al nostro sguardo, alla nostra percezione: il “prima dell’invasione” per Jack, il come eravamo.
L’oblio è il nostro, causato da noi stessi. Noi siamo l’oblio. La ferita al fondo della nostalgia. Come racconta Don Draper in Mad Men: “Teddy mi disse che, in greco, ‘nostalgia’ significa letteralmente ‘dolore che deriva da una vecchia ferita’. È uno struggimento del cuore di gran lunga più potente del ricordo”. Jack Harper e Oblivion cercano di insediarsi al punto di contatto fra percezione storica, senso delle rovine culturali, nostalgia, memoria, oblio. E di ricordarsi come si fa.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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