Terrence Malick alla ricerca dell’amore perduto
L’amore secondo il regista statunitense. Dopo “The Tree of Life”, Malick prosegue un’amara riflessione sul sentimento che unisce gli esseri umani, fra loro e con la terra. con accenti che richiamano la lezione di Antonioni.
A Mont Saint-Michel, in Normandia, l’antica abbazia sembra un vegliardo di pietra a guardia di una spiritualità perduta. Ma per Neil (Ben Affleck) e Marina (Olga Kurylenko) il chiostro è piuttosto l’occasione di effusioni e labbra sfiorate tra colonnine e capitelli. E sulla rena morbida, disvelata dal ritrarsi della marea, s’inseguono, avvicinandosi e allontanandosi in un gioco d’amore. Oltre oceano, ancora, si amano, nei distesi orizzonti dell’Oklahoma, dove lui abita, e lei, ucraina d’origine e con un marito da tempo lontano, si trasferisce con la figlia decenne. Ritiratosi l’amore, come la risacca, e scaduto il permesso di Marina, la donna fa ritorno in Francia, l’uomo vive una breve e intensa storia con una vecchia conoscenza (Rachel McAdams). Mentre Padre Quintana (Javier Bardem), prete in crisi di fede ma ligio ai doveri e alle consulenze spirituali, cerca una via al Signore, i due amanti si cercano di nuovo. Ma forse per perdersi ancora.
Presentato al Festival di Venezia nel 2012, To the Wonder di Terrence Malick si nutre dalla stessa radice lirica di The Tree of Life, pur ramificandosi in un diverso percorso poetico. Più che una storia d’amore, è una storia sull’Amore, non solo di coppia: sul ricercarlo, sul saperlo vivere, sulla comunione del sentimento rispetto all’altro e rispetto al mondo. Nel cercare il proprio modo di amare, i personaggi sembrano quasi ricercare il proprio Dio, la propria spiritualità: sicché ben si confà l’ultima intonazione di Malick, d’una rarefazione quasi misticheggiante, tra colonna sonora a far da litania smorzata, voci fuori campo a dimensionare un flusso di coscienza e di memoria, falsi raccordi del montaggio e avvolgenti movimenti rotatori della macchina da presa di pericolante sospensione. E cionondimeno, To the wonder è un film che dall’empireo dello spirito trapassa costantemente alla terrestrità, ora nella briosa levità da Nouvelle Vague, ora nella materialità minacciosa degli scenari urbani.
Se la voce della natura viene fatta retentire limpida, nello slontanare dei campi lunghi così come nei close up strettissimi sui fiori, è infatti altrettanto vero che ovunque paiono affiorare i segni di una civiltà che soffoca il diretto rapporto con una natura pregna del divino: è cioè un panteismo malinconicamente situato, che deve fare i conti con limiti fisici, con la civiltà, con la finitezza del tempo: “Pensavi avessimo tutta la vita. Tutto il tempo non esiste più”. Ecco, allora, che la dimensione visiva del film di Malick, così intesa a svolgersi sul piano di una visione naturale spiritualizzata, si popola traumaticamente di lavatrici automatiche, palizzate e pale meccaniche, tralicci, bacetti madre/figlia in videochat sul Mac. Non è né la pietra abbaziale di Normandia, quella sì carica del fervore del fedele e dello scalpellino (chiedere al John Ruskin delle Stones of Venice), né la natura incontaminata dell’America delle origini, o della campagna francese: non a caso Neil/Affleck è un ispettore ambientale, alle prese con contaminazioni di piombo e cadmio.
Malick è attento a sviluppare questa coscienza infelice, scissa tra civiltà e natura, in cui l’umanità sembra alternare, come i due protagonisti, slanci d’amore a momenti di drammatica confusione. Nella sinfonia delle immagini, il rombo dei trattori pareggia quello dei tuoni; la polvere dei cantieri si ammonticchia in dune; il riflesso d’un lampadario sul soffitto ha le sfumature di grigio di un cielo annuvolato; Marina, baccante negata, danza nel vento nello stesso modo in cui salta gaiamente sul letto sotto la “pala eolica”, in primo piano, di un ventilatore a soffitto; l’acqua defluisce nei tombini, come ne L’eclisse di Antonioni: dettagli che si sarebbe tentati di definire indimenticabili, se non fossero forgiati nella luce per essere, volutamente, trascorrenti.
Ora paradisiaca, ora babelica (nel film si parlano quattro lingue: inglese, francese, spagnolo, italiano), la scena si fa labirinto interiore. Vi si perde Marina, tra semafori e strisce pedonali, con la macchina da presa che le ruota intorno in una sequenza che ricorda Sean Penn in The Tree of Life fra i grattacieli; perde l’orientamento lo spaesato Don Quintana/Bardeem, che tocca le vetrate come a cercare, nella fisicità della costruzione, la luce spirituale del suo Dio, eppure cede allo sconforto (“Tutto quello che vedo è distruzione, fallimento, rovina”); vi si è perso, da tempo, Neil, un laconico Ben Affleck, che ben esprime l’impossibilità di appartenere. E nella scena del matrimonio con Marina, la chiesa vuota con lei che guarda malinconicamente dalla finestra e lui appartato a distanza, è già una promessa di solitudine, di amore scisso, di ricerca(rsi) nell’amore. Non più panteismo, armonia e identità originaria: è un’aggregazione di atomi, come l’aggregazione al montaggio delle immagini, che cercano di re-immettersi in un flusso inclusivo. Neil e Marina si toccano continuamente, ma sembrano micro-collisioni, o al più labili unioni. Eppure, infine dis-uniti, li unisce la profondità di quello sforzo: i rapporti possono fallire, e i malati del Confessore morire, ma la meraviglia dell’illuminazione cercata resta il connettivo di un’umanità, fatta anche d’individui distanti.
Con To the Wonder, Terrence Malick crea la Love Story con la maiuscola, per quanto nel corsivo di singole creature smarrite, fluttuanti – come immagini – tra cielo e terra, bellezza e dolore, amore e solitudine, ma unite dal mistero di un’appartenenza da ricostruire.
Antonio Maiorino
Terrence Malick – To the Wonder
USA | 2012 | 112’
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati