La notte del giudizio e il trauma nel cinema americano
“La notte del giudizio” non è poi così lontana: il futuro distopico di James DeMonaco, con disoccupazione all’1% e criminalità quasi nulla, è negli Stati Uniti, nel 2022 e con un prezzo da pagare: un’unica, interminabile mezzanotte di fuoco, in cui ogni sfogo violento è concesso.
Ospedali chiusi, stazioni di polizia fuori servizio e si salvi chi può: e la famiglia di James Sandin (Ethan Hawke), esperto (venditore) di sistemi di sicurezza, può. O crede di potere, rintanata nella bella casa da agiata middle class con giardinetto e blindatura tipo fortino. Ma c’è un intruso: il fidanzatino della figlia, con gli ormoni impazziti che gli dettano un regolamento di conti; e un altro s’infiltra, un uomo di colore (innocuo?) che il figlio di James ha fatto entrare con ingenua pietà. Fortino e nervi vacillano, ma all’alba sarà tutto finito.
La notte del giudizio di James DeMonaco è dunque un invasion-thriller low cost, prodotto, calcolatrice alla mano e fiuto per gli affari, da quel Jason Blum che sa come moltiplicare gli incassi (vedi gli ottimi horror Sinister e Insidious, ma soprattutto la scaltra serie dei Paranormal Activity). L’adrenalina a buon mercato viene inoculata trasformando il focolare domestico, l’home sweet home del buon americano medio, in qualcosa di molto simile a un altro simbolo violato, quel distretto 13 di carpenteriana memoria che DeMonaco deve aver ben mappato, essendo sceneggiatore del remake Assault on precinct 13 (2005). Come nel film di Carpenter, il controcampo viene manipolato per frustrare lo sguardo, ma mentre nel film del ’76 i nemici fuori erano invisibili, acquattati nell’isolato, nel 2022 si vedono, eccome, grazie al circuito interno delle telecamere. Eppure l’impotenza è la medesima: non appena fuoriescono dal campo delle “macchine da presa” domestiche, le posizione del nemico diventano ignote. Anche la superpotenza degli occhi, con le sue protesi tecnologiche, non vale a niente: il controllo centralizzato si sbriciola con il semplice raid di un camioncino che abbatte il muro del controllore. Un’approssimazione della sceneggiatura o un sensato paradosso?
Dubbio legittimo, considerando che alcune facilonerie abbassano il livello del film: non ultima, la goffa repentinità di certi twist morali dei protagonisti. Eppure, è vero che le svolte attitudinali della famiglia Sandin sono funzionali a uno spostamento “morale” della frontiera americana. Quest’ultima si è rilocata nel cuore della metropoli, non più baluardo di civiltà ma spazio fragile di tensioni pronte a esplodere, e da qui è direttamente penetrata nella coscienza dell’americano medio, il cui limite interno è quello del confine mutevole tra l’ignavia di fronte alla violenza e l’attivismo della scelta etica: la rebirth of a nation citata nel film si gioca, cioè, tra una condiscendente purificazione via cavo, attraverso la fortezza televisiva, con la violenza lasciata esplodere fuori, nel limbo dello schermo, e il (ri)diventare pionieri dell’aggregazione, della protesta, dell’intervento.
L’effetto è da Videodrome (1983) alla Cronenberg, e non è un caso che quella temperie cinematografica, a cui apparteneva anche il film di Carpenter, annoverasse non solo il delirante horror sul cancerogeno impero televisivo, ma anche quel Brood (1979), sempre del canadese, in cui il male si annida nel corpo di una casalinga: l’orrore alberga nel cuore dell’America, nelle case borghesi, fra le strade. Più dentro ancora: nei corpi, negli animi. Che lo si guardi, o meno; che s’intervenga, o meno.
Negli interni a lumi di torcia, ciò che riesce difficile è guardarsi dentro, è diventare “vigilanti” di se stessi, della propria energia negativa. Qualcuno ha richiamato film come Un dollaro d’onore (1959) di Howard Hawks, ma siamo piuttosto all’evoluzione postmoderna dell’urban vigilante genre, del quale già Slotkin aveva rilanciato lo slittamento: “Ciò che rende l’urban vigilante genre diverso da quello western è la sua ambientazione post-frontiera. Il suo mondo urbanizzato e le sue possibilità di progresso e redenzione sono limitate dalle cospirazioni di corporazioni largamente ramificate e dalla mostruosa accumulazione di ricchezza, potere e corruzione. I suoi eroi traggono energia da quella stessa rabbia che guida gli assassini paranoici e psicopatici e i terroristi delle strade degradate e le loro vittorie non sono quasi mai socialmente redentive secondo una modalità occidentale”, scrive Richard Slotkin in Gunfighter Nation: The Myth of the Frontier in Twentieth-Century America.
Così, la vittoria di Pirro della famiglia Sandin comporta l’eliminazione forzata dei piacenti giovinastri benpensanti, meglio, ben-purificanti, che premevano, da fuori, col sano aspetto da bravi ragazzi in stile Funny Games (1997, ma Haneke ha ben pensato di farne un remake “americano” nel 2007) e le maschere che fanno pensare a Point Break (Kathryn Bigelow, 1991), ognuno “Presidente” del proprio isolato, in un’America che rimuove i punti di rottura, allontana i traumi, implode verso l’interno, verso le case, verso le coscienze. E l’erba del vicino è sempre più rossa: la linda desperate housewife della porta accanto, a fine film coi denti rotti, tornerà verosimilmente alla bella vita, redimendosi in punta di fazzoletto. Non ci sarà bisogno di vigilare sullo steccato, ma restano le stecche del proprio senso della “pietas” e quel viscidume di fondo, che in un altro horror sarà ben rappresentato da Bryan Yuzna (Society, 1989).
Nella trappola dedalica dell’abitazione, dunque, si gioca fisicamente la partita della sopravvivenza, come in quel Cane di paglia (1971) di uno dei cantori della dissoluzione e della dissolutezza della frontiera, Sam Peckinpah: ma c’è anche un labirinto di coscienze. Come l’indimenticabile Dustin Hoffman, professorino costretto a metter le palle e custode di un presunto stupratore, Hawke/Randin difende strenuamente l’infiltrato di colore, ma perviene a questo proposito solo a costo di un lungo e incerto stallo emozionale. La debolezza de La notte del giudizio è probabilmente nell’arruffoneria e nella ruffianeria con cui questa traccia si sviluppa: come se anche la rimozione venisse, in fondo, rimossa, a vantaggio del capitalismo cinematografico, fatto di scontri a fuoco e troppo facili frontiere di pop corn. Con poca qualità, ma non senza senso, la rebirth of a nation del film di James DeMonaco è raccontata ancora nella notte nerissima di quei formati tutti sfocature più che sfumature, con qualche brivido appena a fior di pelle, e guai a rigirare il coltello nella piaga. Ché i traumi fanno male.
Antonio Maiorino
James DeMonaco – La notte del giudizio
USA | 2013 | 85’
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