Quando il fantasy è urban
La lotta contro il cane fantasma, personificazione del Male. Lotta che però avviene in cucina, tra un rifugio-frigorifero e un’arma-cucina a gas. È l’evoluzione del fantasy in chiave urbana. in due pellicole recenti.
Tra il Beautiful Creatures d’inizio anno, destinato a raccogliere il testimone di Twilight presso le platee cinematografiche, e il secondo capitolo della saga di Hunger Games, previsto in Italia a novembre col titolo La ragazza di fuoco, il fantasy sul grande schermo, di rigorosa derivazione letteraria, ha conosciuto due episodi intermedi d’un certo interesse per chi volesse esplorare i confini di questi mondi: Shadowhunters – Città di ossa di Hans Zwart e il recente sequel di Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo, Il mare dei mostri di Thor Freudenthal. Confini, peraltro, che paradossalmente diventano più vasti quanto più lo spazio di riferimento dell’ambiente cinematografico si fa apparentemente angusto nella propria familiarità: l’aggettivo ‘urban’, comunemente usato per indicare le storie fantasy che scelgono la città come set di parte degli eventi, qualifica, più che una restrizione, una possibilità per il genere. Si tratta infatti di concepire la dimensione urbana come un utile colabrodo creativo, uno spazio potenzialmente aperto su altre dimensioni. Non già mondi paralleli, beninteso: ché le convergenze, semmai, sono gli spunti drammatici e d’azione da sfruttare. Piuttosto, sacche e contrazioni di un universo elastico, dove interferenze, sfondamenti e contaminazioni danno la stura a incursioni creative in una miriade di varianti.
Ci sono diverse scene di Shadowhunters che appaiono emblematiche in questo senso. Il romanzo di derivazione appartiene alla saga ideata da Cassandra Clare, l’underworld di demoni è a Brooklyn, l’oggetto della contesa – roba vecchia quanto Artù – è una coppa. La giovane protagonista, Clary (Lily Collins), scopre di non essere del tutto “mondana”: è in qualche modo legata agli shadowhunters, cacciatori di demoni per metà uomini e per metà angeli. Per larghissimi tratti sono camerette, interni in penombra, discoteche, vicoli e rifugi urbani dismessi a edificare l’immaginario spaziale. È impressionante la prima scena di “lotta” della giovane, alle prese con una sorta di mastino fantasma, un cerberaccio ruggente. La casa era stata già violata, la madre presente, in stile home invasion, con la declinazione urban che sembra quasi diventare “domestica”. Clary si difende in cucina, con una trasfigurazione del background quotidiano in campo di forze in battaglia: le solite, quelle del Bene e del Male. Non è forse così consueto, però, che un animale demoniaco venga arrostito sfruttando il gas del piano cottura, mentre la fortezza della ragazzina sia il frigo. Considerando il sottotitolo del film, The Mortal Instruments, viene da pensare come nell’evoluzione del filone anche la Whirlpool possa diventare un’industria d’armi.
Se questa e altre sequenze attestano la facile osmosi tra l’en plein air dell’universo di pura invenzione e i contesti urbano-domestici, cosa significhi dal punto di vista cinematografico l’ibridazione degli spazi è ben evidente, persino a parole, nella scena in cui un algido e biondo shadowhunter, Jace (Jamie Campbell Bower), che non sorprende vedere con le fattezze di un idolo pop, mostra a Clary un portale dal quale è possibile accedere a qualsiasi posto si voglia, sia pure con notevole sforzo di concentrazione, necessario per evitare di rimanere intrappolati nel limbo di un pensiero poco chiaro. “Le dimensioni non sono fatte solo da linee rette. Ci sono pieghe, avvallamenti e angoli”, spiega Jace. “Se infrangi quella superficie, vieni trasportato ovunque vogliano i tuoi pensieri più profondi”. In qualche modo, la spiegazione diventa calzante rispetto a quanto possa accadere agli spazi della creazione letteraria in un filone come lo urban fantasy. E oltre: perché il cinema aggiunge una plasticità visiva che aggiunge al racconto una magmaticità di fondali e situazioni, una prometeica rimodulazione di quadri e condizioni. Anche perché ogni spazio, nel cinema, essendo parte dell’immagine, fa tutt’uno con il dramma: è un campo di forze, appunto. È spazio drammatico. La concrezione visiva dello stargate è quella di una indefinita e gelatinosa placenta blu, una materia con la quale il giovane Romeo si concederà persino divagazioni scherzose, manipolandola da giocoliere, ma all’occorrenza facendone un’arma letale. Un po’ come succede per la direzione cinematografica: purché non resti bloccata nel limbo di idee confuse e set di cartone.
Rispetto al primo capitolo, Il ladro di fulmini, il secondo Percy Jackson (ancora Logan Lerman protagonista) calca la mano sull’utilizzo, anche bislacco, della tecnologia: il semi-dio ricerca i nemici su Semi-Google (!) e con l’iPad si può accedere a un database di personaggi mitologici. Il fratello di Percy, anch’egli figlio di Poseidone, è poi un ciclope che per coprire l’unico occhio utilizza classicissimi occhiali da sole. Un’accanita scena di lotta con l’antagonista Luke si svolge su uno yacht, molto più in stile James Bond che fantasy. Ed è significativo che la ricerca del vello d’oro da parte di Percy e della sua compagine sia dovuta alla necessità di guarire l’albero magico del campo di addestramento, un tempo sorto sulle spoglie di una bambina sacrificatasi per il bene altrui, e soprattutto in grado di generare una barriera magica a protezione del confine. Eppure, un toro meccanico – come a dire, il Minotauro nei tempi moderni ha qualche ingranaggio diversamente costruito – ha sfondato la protezione: l’albero è indebolito, l’ambiente non è sterile. Così, anche il Percy che alla fine de Il ladro dei fulmini pareva essere segregato nell’universo tout court mitologico, tout court fantasy di centauri e arcieri, affronta un processo di crescita attraverso il meccanismo di “superamento del confine”, come Clary: più mondi, più esperienze, più responsabilità. Il coming of age si fa diventando urban explorer, con l’urbs che un orbis terrarum dalle orbite infinite: pericolose nella fiction, divertenti per chi guarda. Al punto che l’immagine più rappresentativa diventa lo scontro di Percy e compagni col Ciclope in quella che si chiama Circeland, e che si profila come un parco giochi abbandonato, con tanto di nebbia finta (ma il parco fantasma è vero, si trova a New Orleans): è nella foschia d’un posto per infanti che Percy ci vede meglio su se stesso, cresce e si guadagna il crisma del leader.
Nel passaggio dalla letteratura al cinema nel filone dell’urban fantasy si assiste dunque a una compenetrazione ancora più stringente e profonda tra la ruota dei panorami e quella delle fortune dei personaggi, tra ambiente e azione, spazio e dramma: come ha commentato a proposito del set-parco Alexandra Daddario, interprete di Annabeth nella saga di Percy Jackson, “it’s very cinematic”.
Antonio Maiorino
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