La Gatta con gli Stivali. E Polanski colpisce ancora
Il teatro della crudeltà e la crudeltà del teatro nell’ultimo, imperdibile film di Roman Polanski. Che a ottant’anni sfodera un’energia e una vitalità inusitate nel cinema contemporaneo. Siamo andati a vedere “Venere in pelliccia”.
Chi sarà mai quella bizzarra attricetta dallo stringato curriculum e da una gavetta nella Compagnia dell’Orinatoio, arrivata in ritardo in teatro per le audizioni di Venere in pelliccia, pièce tratta da de Sade, di cui apparentemente non sa nulla e che crede abbia qualcosa a che fare con la celebre Venus in furs di Lou Reed? I provini sono tenuti dal nervoso regista Thomas, “schiavizzato” da un’ossessiva fidanzata che lo chiama sovente al telefonino; è alla disperata ricerca della protagonista Wanda, la bella e affascinante donna di cui il personaggio maschile Severin si innamora, accettando di divenirne il fedele schiavo, in attesa di farla sua un giorno. La sbandata e sboccata Vanda riesce, con pochissime mosse, prima a convincere lo scettico regista a poter provare e poi, in brevissimo tempo, a dominare la scena con il suo inaspettato e insperato talento.
Vanda sembra essere nata per recitare Wanda. Non solo. Riesce magicamente a trovare le luci adatte per le diverse scene e a proporre abiti perfetti per le due parti, seppur rimediati in un mercatino delle pulci. Interpreta magnificamente quel ruolo, anche se trova maschilista e denigrante per le donne il lavoro di Sacher-Masoch, pronta a sindacare ogni battuta e a cercare spiegazioni, consapevole del fatto che tutto a teatro sia sempre metaforico e, in qualche modo, autobiografico. In una delle scene più irresistibili, arriva persino a “psicoanalizzare” Thomas e a smascherare la sua prevedibile e triste vita da intellettualoide abbonato ad Art’è.
La vertigine dei ruoli aumenta quando, nel finale, i due si scambiano la parte, e la vittima diviene carnefice e viceversa. Chi è davvero Vanda? E chi Thomas? Sono due poli opposti o forse la stessa persona? Non toglieremo certo il piacere di scoprirlo allo spettatore, che potrà trovare più di una risposta plausibile con lo strepitoso finale. Di certo, Thomas è Roman Polanski, come d’altronde la fisionomia, i gesti, i vestiti di Mathieu Amalric suggeriscono. E Vanda-Wanda è certamente sua moglie Emmanuelle Seigner, che rinverdisce qui i fasti sadomasochistici di Luna di fiele vent’anni dopo: nata per questa parte in cui può passare dal divertente côté triviale a quello elegante e sofisticato, dimostra, esattamente come il suo personaggio, di nascondere sotto la sfacciata bellezza, un talento non comune e a lungo sottovalutato.
Un continuo entrare e uscire dai ruoli, un frenetico alternare realtà e finzione, vita vissuta e vita inventata, come ben suggeriscono il mimare lo sfilarsi dei guanti o quello delle virgolette nell’aria. Il teatro diventa, così, grande cinema nella mani di Polanski, che nei piccoli dettagli e nei gesti accennati trova la chiave di volta, come nel precedente Carnage, per creare un mondo anche in uno spazio ristretto e con appena due personaggi in scena. Quale regista vivente può permettersi un film del genere, dimostrando non soltanto di avere almeno la metà degli effettivi ottant’anni, ma di modellare su di sé e sulla propria vita un testo come questo, per poi terminarlo con la fulminante epigrafe “E l’Onnipotente lo colpì, e lo consegnò nelle mani di una donna”?
Giulio Brevetti
Roman Polanski – Venere in pelliccia
Francia/Polonia, 2013, 96’
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