Rectify, la terza via al braccio della morte
Una serie prodotta da Sundance Channel, il canale via cavo costola dell’omonimo festival creato da Robert Redford. Dove la colpevolezza è l’ultimo dei problemi.
Una fotografia estetizzata fino alle più estreme conseguenze, con effetti luministici quasi pittorici, a metà strada tra gli svaporati lirismi di Terrence Malick e la cruda poesia di Alejandro Gonzalez Iñárritu. Personaggi ricchi, costruiti con la sapienza e la pazienza di un orafo; un ritmo sobbalzante, che nell’alternanza tra lunghi attimi di sospensione e brusche accelerate aumenta l’effetto di straniamento e lo scarto tra la realtà vissuta e quella immaginata.
Rectify è la seconda serie mai prodotta e trasmessa su Sundance Channel, il canale via cavo costola dell’omonimo festival creato da Robert Redford e interamente dedicato a documentari e film ad alto tasso di qualità. Una virata, quella verso i serial, nata sull’onda dell’acquisizione della rete da parte del network AMC, che non a caso piazza nella squadra che elabora il nuovo progetto Melissa Bernstein e Mark Johnson. Tra i produttori esecutivi di uno dei più luccicanti gioielli di famiglia: Breaking Bad.
Il concept porta un’altra firma autorevole, quella dell’attore, regista e produttore Ray McKinnon, premio Oscar nel 2002 per il cortometraggio The Accountant.
È un cavillo da azzeccagarbugli a permettere a Daniel Holden (Aden Young) di uscire dopo quasi vent’anni dal braccio della morte, in attesa che venga fatta piena luce sul caso che lo vede unico imputato. Ma il clima della Georgia post-ruralizzata, anello debole di una catena che porta sulle spalle tutto il peso della crisi, non è propriamente benevolo nei confronti di un uomo accusato di aver stuprato e ucciso una teenager. Profonde le contraddizioni che fanno da scenario al suo illusorio ritorno alla normalità, tra stucchevoli eccessi di benevolenza e infime crudeltà, sullo sfondo di una famiglia allargata incapace di gestire serenamente il processo.
Le cicatrici del carcere non si rimarginano: Daniel si muove come un alieno, intontito da una libertà spaventosa, dente scheggiato che fa saltare gli equilibri di piccolo ma efficiente motore di placida e conservatrice sicurezza borghese, costellata di stucchevoli comunità ultra-cristiane. “Non è solo buona televisione, è televisione rivelatrice”: così il Los Angeles Time, che si accoda a una critica talmente entusiasta da spingere il network, dopo la prima mini stagione andata in onda in primavera, a programmare per il 2014 un bis di dieci episodi.
Non è importante sapere se Daniel, alla fine dei giochi, sia o meno colpevole. A intrigare è il doveroso aggiornamento del modo di trattare la questione, irrisolta, della pena di morte negli Stati Uniti. Troppo a lungo ancorata al pietismo de Il miglio verde e al combat-style di Dead Man Walking, incapace di trovare un registro narrativo originale.
Francesco Sala
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #15
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