House of Cards. E Kevin Spacey diventa senatore
Schermo nero, il graffio di una frenata e il tonfo sordo di un corpo colpito. Guaiti strazianti. Un elegantissimo Kevin Spacey irrompe sul marciapiede, accorre ad assistere il cane morente: “C’è un dolore che fortifica e un altro tipo di dolore, inutile. Io non posso sopportare le cose inutili”.
Non ci vuole troppa immaginazione per capire come si chiude la prima scena di House of Cards, serie destinata a cambiare per sempre il modo di intendere un certo tipo di prodotto. Con esperienze stile Boardwalk Empire – firme che vanno da Mark Wahlberg a Martin Scorsese, Steve Buscemi nel cast – ci eravamo abituati ad alzare l’asticella della qualità e con Breaking Bad abbiamo visto compiersi la definitiva consacrazione del serial a fenomeno di massa: ora tocca al superamento della tv, trasformata da strumento esclusivo ad accessorio. Da sostitutivo del focolare domestico ad ammennicolo sul viale del tramonto.
La Rete è il futuro e il futuro è adesso: House of Cards viene acquisita per il mercato americano da Netflix, piattaforma che lavora esclusivamente sull’on-demand via web. Che riesce a sbaragliare “alle buste” la concorrenza di colossi come HBO e conquistare il pubblico, diventando la prima web-serie a vincere un Emmy Award: quello per la miglior regia, andato a un certo David Fincher, titolare dei primi due episodi di una stagione d’esordio in arrivo, per l’Italia, su Mediaset Premium.
Eravamo a Kevin Spacey, stupendo nella parte del senatore Frank Underwood, vecchio leone democratico che tira la volata a tale Garrett Walker in cambio della promessa di ottenere la poltrona di Segretario di Stato. Le elezioni vanno in archivio, Walker diventa il 45esimo presidente degli Stati Uniti ma si rimangia la parola: niente ricompensa per i servigi di quello che, inevitabilmente, diventerà il suo più strisciante e terribile nemico. La trama, basata su una vecchia miniserie britannica, è più che stuzzicante; il cast – rimpolpato da un’algida Robin Wright – decisamente ottimo: da applausi la confezione, con scelte narrative di straniante teatralità. Preziosi gli “a parte” di un mattatore, Spacey ovviamente, che ammicca con il pubblico che lo fissa dall’altra parte dello schermo, con incisi serratissimi e occhiate che valgono da sole più di mille dialoghi.
E poi c’è il nuovo che avanza inesorabile: nella sfida della giovane arrivista reporter del Washington Herald che fa la guerra alla carta in favore del web, ma anche in piccole schegge sparse di crudo e acuto darwinismo sociale. Impagabile la maschera della Wright mentre perde tempo alla cassa del fast-food perché l’impiegata, senza l’aiuto della collega più giovane, non sa armeggiare con il registratore elettronico. It’s the evolution, baby…
Francesco Sala
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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