Fargo, il serial dell’anno
Prendere un film cult degli Anni Novanta ed esploderlo in una serie tv è operazione tanto rischiosa da rasentare la follia. Ma considerato che i pazzi in questione si chiamano Ethan e Joel Coen il risultato è straordinario: applausi per “Fargo”, serial che farà epoca
“In principio eravamo gorilla: qualcosa era nostro solo se ce lo prendevamo e lo difendevamo. Siamo qui a ingoiare merda un giorno dopo l’altro: e il capo, la moglie, eccetera… a imboccarci fino allo sfinimento. Se non ti fai valere, se non fai vedere loro che nel tuo profondo, dove sei più vivo, sei ancora un primate, ti sciacqueranno via”. Il riferimento alla più cruda legge della giungla arriva nel tepore perlinato di una squallida tavola calda del Minnesota, le finestre appannate dallo sbalzo termico tra l’inverno esterno e il fumigare delle tazze di caffè; è di poche parole Billy Bob Thornton, ma le sa centellinare quanto basta per mettere subito le carte in tavola.
Siamo agli sgoccioli della prima puntata di quello che facilmente sarà il serial dell’anno: signore e signori, ecco Fargo, attesissimo spin-off del film che nel 1996 ha acceso i riflettori del mondo sul talento tossico di Ethan e Joel Coen. Accreditati come produttori esecutivi di un progetto lanciato negli Stati Uniti a metà aprile da FX e subito premiato da critica e pubblico: oltre quattro milioni e mezzo gli spettatori della première, record di rete per una serie drammatica e tra i primi cinque prodotti più visti di sempre nella storia del canale. Con indici di valutazione da parte dei severissimi blog di settore americani che rasentano la perfezione.
Il rapporto tra la serie e il film è come quello di un figlio con il proprio padre: la biologia non mente, i tratti somatici in comune ci sono eccome; ma il nuovo arrivato non è un copia-incolla di cromosomi, semmai l’articolata maturazione di un percorso artistico che risente di ciò che è accaduto nel cinema dei Coen negli ultimi vent’anni. Il plot ruota sempre attorno alle maldestre ansie di riscatto umano del più classico loser di provincia (là William H. Macy, qui Martin Freeman, il Bilbo della trilogia de Lo Hobbit), al fiuto di una improbabile ma efficace detective e alle imprevedibili mosse di un killer filosofo (Thornton, il cui personaggio raccoglie in un solo ruolo l’eredità di quelli di Peter Stormare e Steve Buscemi).
Ma le sintonie, tolta la neve, terminano qui. La vicenda galoppa per la propria strada con l’incedere sanguinolento di Non è un paese per vecchi e il senso di spaurita inadeguatezza e ineludibile titanismo del Larry Gopnik di A serious man, quasi ci trovassimo alle prese con una summa dell’immaginario dei Coen, con la loro terribile capacità di raccontare nel migliore dei modi il momento preciso in cui ci si trova di fronte a un bivio. E si finisce sempre per prendere la strada che si rivelerà peggiore.
Francesco Sala
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19
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