La terapia del cinema. Still Alice di Richard Glatzer e Wash Westmoreland
Raccontare l’Alzheimer senza scadere in patetismi e pietismi. Ci riesce un film in cui Julianne Moore è in stato di grazie e dove uno dei registi comunica con la troupe tramite iPad.
Il cinema come terapia o la terapia del cinema: mai come negli ultimi tempi si è attribuito alla settima arte un potere curativo, capace di guarire malattie, intiepidire nevrosi, aiutare a superare momenti di depressione, riempire i vuoti. Ovviamente non esistono film che, in quanto tali, sono in grado di sconfiggere patologie o combattere affezioni. Esistono, piuttosto, pellicole capaci di innescare processi profondi, come l’autoanalisi e l’introspezione, davanti alle quali diventa estremamente più complicato volgere lo sguardo altrove per fingere di non vedere il fantasma seduto al nostro fianco.
Still Alice è, a pieno titolo, uno di questi film. Presentato con successo al Festival di Toronto lo scorso settembre (in Italia è a passato in concorso al Festival del Film di Roma), Still Alice si sviluppa e ruota attorno a Alice Howland (Julianne Moore), professoressa di linguistica alla Columbia University di New York. Alice, alla soglia dei cinquanta, conduce una vita tranquilla e serena. È affermata e rispettata nel suo campo, ha un ottimo rapporto con il marito chimico John (Alec Baldwin) e tutti e tre i suoi figli sono realizzati.
Ma improvvisamente qualcosa cambia. Alice si accorge che la sua memoria inizia a cedere il passo e, dopo una serie di episodi allarmanti, si rivolge a uno specialista, apprendendo di essere affetta da una forma presenile del morbo di Alzheimer. Il suo castello di certezze crolla rovinosamente, trasformandola in una donna fragile e indifesa, in balia degli eventi, anche e soprattutto di fronte allo sguardo della famiglia che l’ha sempre vista come una colonna portante. La difficoltà comunicative e la progressiva perdita della memoria non le impediranno in ogni caso di dimostrare che, nonostante tutto, lei è comunque Alice.
Trasposizione dell’omonimo romanzo della neuroscienziata Lisa Genova, Still Alice è la storia di una deriva, raccontata da chi sa bene cosa significa essere “diversi”. Richard Glatzer, infatti, è affetto da sclerosi laterale amiotrofica e durante la lavorazione del film ha comunicato con il resto della troupe grazie a un iPad. Insieme al proprio compagno di vita Wash Westmoreland – eclettico filmmaker britannico, capace di muoversi trasversalmente tra porno, documentario e film di finzione – fornisce allo spettatore una spiegazione e un’argomentazione emozionale del morbo di Alzheimer, caricandosi sulle spalle anche il rischio di edulcorazione che la tematica porta con sé.
Grazie invece a una mano registica mai retorica e a una protagonista in stato di grazia, la spettacolarizzazione del dolore viene prudentemente aggirata, e il faccia a faccia con l’Alzheimer risulta privo di manierismi e patetismi vari. Così il pubblico in sala non può che elaborare quello che l’interprete fa e dice, perché il corpo è la memoria del vissuto, e la sua aura emozionale sopravvive ai propri circuiti cognitivi. Probabilmente, l’amore non impara mai a dimenticare.
Marcello Rossi
Richard Glatzer & Wash Westmoreland – Still Alice
USA/Francia – 2014 – 101’ – drammatico
www.goodfilms.it
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