L’inutile lezione della guerra: American Sniper di Clint Eastwood
Clint Eastwood torna – dopo la parentesi di “Jersey Boys”, riuscito a metà – a raccontarci uno spaccato d’America. Con un film misurato, lucido, senza cali di tensione. Che racconta dell’assurdità della guerra e delle logiche deliranti che la governano.
Secondo film di guerra cheClint Eastwood eredita da Steven Spielberg (il primo era stato Flags of Our Fathers), American Sniper è un biopic basato sull’omonimo best-seller autobiografico di Chris Kyle, “il cecchino più letale della storia americana”, come recita la tagline dell’opera. Ex Navy Seals, Kyle, nativo di Odessa, è diventato una vera e propria leggenda vivente in patria grazie ai suoi numeri strepitosi: 160 morti confermate al suo attivo, su 255 probabili, durante le sue quattro missioni in Iraq. Il suo colpo più famoso è di certo quello esploso nel 2008, a Sadr City, che ha colpito un bersaglio alla distanza di quasi due chilometri.
Tema centrale della poetica eastwoodiana, l’arma – si pensi alla 44 Magnum dell’ispettore Callaghan, divenuta dito puntato in una splendida sequenza di Gran Torino – torna prepotentemente al centro della scena sin dalle prime battute: i fotogrammi di apertura sono infatti filtrati dalla visuale in soggettiva del fucile di precisione di Chris (Bradley Cooper), che in un attimo deve scegliere se abbattere o meno un bambino che corre verso un tank Usa con in mano una granata. Il regista non ci mostra cosa accade (lo si scoprirà più avanti), scegliendo di fare un passo indietro nel tempo per mostrare il militare da giovane.
La tetra luce irachena lascia il posto ai colori dorati di un bosco texano: questa volta, dall’altra parte del mirino, c’è un cervo. Il bambino spara, l’animale si accascia silenziosamente al suolo. Lui gli corre incontro eccitatissimo, lasciando cadere il fucile nell’erba, attirandosi le dure critiche del padre, il diacono William Kenneth Kyle: l’arma è una cosa da cui non ci si separa mai. Perché, nell’America post 11 settembre, saper sparare bene è un dono.
Guidato più dalle azioni di Kyle che dall’introspezione psicologica, American Sniper è un’opera non tanto sulla guerra, ma sulla “procedura” della guerra. Simmetrico, anche se di segno opposto, all’altro grande film sull’Iraq degli ultimi anni, The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, il film è trasfigurato dall’occhio essenziale, lapidario, antisentimentale e antispettacolare della macchina da presa di Eastwood. La sua estetica disadorna evita l’erotizzazione da videoclip del corpo che avevamo visto in Black Hawk Dawn di Ridley Scott, o anche la mascolinità tardoromantica dei “guerrieri” di John Millius, a favore di un realismo dei più brutali, diretto, quasi mai alla ricerca della stilizzazione visiva.
Guerra, pistole, bossoli: ognuna di queste cose ha delle conseguenze. Poco importa il come e il perché si spari: dietro a ogni proiettile ci sono un uomo e una decisione, ci ricorda il regista. Diventa perciò difficile, oggi, fare il nome di un altro autore audace a tal punto da sbattere in faccia allo spettatore una realtà così cruda, scomoda. Per questo e altri motivi, nel cinema di Eastwood – così come al tempo era accaduto in quello di Aldrich, Hawks e di Ford – risuona la campana della responsabilità. Il che, vista la situazione, non può che essere un bene.
Marcello Rossi
Clint Eastwood – American Sniper
USA – 2014 – 134’ – guerra/biopic
www.warnerbros.com
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