Peter Greenaway e lo scandaloso Goltzius
“Goltzius and The Pelican Company” segna, dopo sette anni, il ritorno al cinema del regista gallese, noto per la sua maniacale ricercatezza delle parole, raffinatezza delle immagini e ibridazione tra cinema e teatro. La sua ultima pellicola, distribuita in Italia solo per il circuito d’essai, è un capolavoro d’estetica, capace di indagare la vita e la morte, il sesso e l’arte.
Hendrick Goltzius nacque in un piccolo villaggio dell’odierna Renania Settentrionale-Vestfalia, nel 1558. Ancora in fasce, rischiò di morire carbonizzato per un incidente domestico, da cui ne uscì salvo ma con la mano destra totalmente ustionata e che, col tempo, si deformò. Molti anni dopo, proprio quell’arto offeso rese Goltzius uno dei più grandi, e tra i primi, incisori olandesi del tardo Cinquecento. E proprio quella mano deformata, rea delle primissime incisioni “audaci” – ad alto contenuto erotico -, è la prima cosa che Peter Greenaway (Newport, 1942) ci mostra nel suo ultimo lavoro, Goltzius and The Pelican Company.
Fermi. Prima di andare avanti sono necessarie due righe (ma ne servirebbero molte di più) su Peter Greenaway. Probabilmente, la cosa più importante da dire è che la sua formazione è pittorica e non cinematografica. Di conseguenza, e semplificando, dovete pensare a Greenaway come a un pittore con la macchina da presa. Questa sua formazione, e l’ossessione per l’estetica, l’ha reso quello che è: il più grande rappresentante del cinema fatto ad immagine, una grandissima immagine, composta da scenografie, musiche, costumi e attori; una immagine che è un dipinto, che è un tassello del mosaico – che si scopre lentamente –, in cui la cui resa visiva è tutto, ma è niente senza una sperimentazione percettivo-sensitiva, senza una conturbante e magnifica estetica che risiede nella scelta delle parole e nella fisicità degli attori.
Il film ha una trama semplice: Goltzius (Ramsey Nasr) è alla ricerca di un finanziatore per riuscire a realizzare un libro d’illustrazioni di alcune tra le più controverse storie del Vecchio Testamento. Nel margravio d’Alsazia (F. Murray Abraham) trova un finanziatore, la cui corte è nota per la libertà d’espressione già in tempi remoti, che però ha qualcosa da chiedere in cambio: Goltzius e la sua compagnia dovranno mettere in scena, per sei notti, gli episodi biblici legati ai vizi capitali.
Il film, dunque, ruota attorno alle rappresentazioni teatrali del voyeurismo (tra Adamo ed Eva), dell’incesto (Lot e le sue figlie), dell’adulterio (Davide e Betsabea), della pedofilia (moglie di Putifarre e Giuseppe), della prostituzione (Sansone e Dalila) e infine della necrofilia (Salomè e Giovanni Battista).
La maestosità dell’opera, sovrabbondante di barocche scenografice, di costumi, di accadimenti, rese contemporanee da una location industriale, con richiami a Shakespeare e Brecht e con molte scene di nudo e sesso esplicito, risiede nella cucitura perfetta tra teatro e cinema. Sullo sfondo passano le incisioni di Dürer, mentre gli attori – tra cui gli italiani Pippo Delbono, Giulio Berruti e Flavio Parenti – recitano per eccitare e sedurre il margravio d’Alsazia, cioè in fine per sedurre noi. Allora la pellicola si attorciglia, a spirale, come un boa sulla sua preda: la macchina da presa compie movimenti lenti, spesso su carrelli, attorno agli attori, attorno ai corpi nudi e sudati. In tutto ciò imperversa la musica, violini e violoncelli, tengono il ritmo delle scene sempre più carnali, per cui saremmo tentati di gridare allo scandalo, come immediatamente fa il cattolico romano alla corte del margravio.
Più le rappresentazioni vanno avanti, più la corte del sovrano, scioccata, chiede le teste degli attori e dello stesso Goltzius. Ma il margravio è troppo avido e lussurioso e, come noi, vuole che la Pelican Company porti a termine il suo lavoro. Poi mentre Goltzius parla, ci svela indirettamente una cosa: è l’alter ego stesso del regista. E dice: “Provo un’intensa avversione per il ruolo del drammaturgo. Ti dicono continuamente cosa hai sbagliato, come avresti potuto fare meglio, che non è realistico, che non è andata proprio così. Loro come lo sanno? C’erano ai piedi della Croce? O quando hanno fatto entrare il cavallo di Troia?”. Non sarà un caso che non esiste, nei film di Greenaway, sceneggiatura che non sia scritta di suo pugno.
La profondità di messaggio del film è straordinaria, che lo rendono gigantesca metafora della vita e della morte, 112 minuti, rilasciati col contagocce. Lo spettatore, ultimo elemento necessario al compimento dell’opera di Greenaway, è l’altro peso della bilancia, il riflesso nello specchio. E ciò che vediamo, è ciò che mai vorremmo vedere.
Paolo Marella
Peter Greenaway – Goltzius and The Pelican Company
UK-Olanda-Francia-Croazia – 2012 – 112’ – drammatico
http://cinecult.scrittoio.com/
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