“La giovinezza” di Sorrentino chiude la tripletta italiana a Cannes
Artificio formale, sceneggiatura brillante e inserti d’atmosfera per quello che sembra il sequel de “La grande bellezza”. Critica divisa a metà e, forse, qualche chance di convincere la giuria.
Dopo l’Oscar la vita è più facile: più facile trovare finanziamenti, più facile convincere attori di alto livello, più facile che tutti siano bendisposti. Fra i tre italiani in concorso al Festival di Cannes, Paolo Sorrentino è stato l’unico a non volere anticipate stampa: la proiezione italiana per gli addetti ai lavori era quasi contemporanea a quella al Theatre Lumière in Croisette, il giorno stesso dell’uscita al cinema. Perché questa scelta?
Ambientato nella cornice delle Alpi svizzere in una clinica termale per personaggi famosi, Youth segue un ex direttore d’orchestra in pensione (Michael Caine) e il suo amico regista (Harvey Keytel) in una riflessione sulla vecchiaia. Più che sviluppare una storia, accumula una serie di quadri e situazioni, non necessariamente collegati tra loro, che spesso hanno un grande impatto visivo o dialoghi brillanti. Così c’è nel pubblico qualcuno che ride della trovata dialettica e altri che ammirano il virtuosismo tecnico. Eppure nella pretesa imprevedibilità tutto è già routine. Da Michael Caine acconciato da Servillo a Raquel Weisz che guarda il soffitto come Sabrina Ferilli nel film che ha vinto l’Oscar (perché non tenere gli italiani, allora?). Dalla bellona che fa da esca per l’uomo medio al centro del manifesto, ai cori della colonna sonora, ogni attore sembra una declinazione diversa di un unico protagonista: Sorrentino.
Vedere questo film è come vedere un sequel di un blockbuster, con la variante della fattura autoriale. Sorrentino ha fatto Youth col mould: a forma e immagine e suono della Grande bellezza.
Il formulario prevede almeno: 1. scena collettiva iniziale accompagnata da musica; 2. presenza di personaggi grotteschi non necessari allo sviluppo narrativo; 3. una storia triste: se non sono santi che strisciano sono pazzi al manicomio; 4. almeno un inserto visionario: dal Gianicolo a piazza Venezia, bel souvenir d’Italie, servito sul piatto d’argento alla stampa estera; 5. delirio d’onnipotenza: come spiegare l’attitudine di un regista ad autoproclamarsi successore di Fellini riproponendo sequenze intere di 8 e ½ o la Dolce vita in due film consecutivi? Se la clinica fosse stata psichiatrica, Sorrentino si sarebbe fatto chiamare Snaporaz; 6. tecnicismi: fotografia patinata, quadri statici del tutto artificiali, movimenti di macchina che scivolano in avanti o indietro, riprese angolari.
Le trovate ad effetto che distraggono lo spettatore sono tante: il concerto dei campanacci delle vacche, la carta della caramella Sperlari come metronomo, il monaco tibetano che levita (direttamente dall’ultima tendenza tra gli artisti di strada), quello che manca al film di Sorrentino è un solo brandello di sincerità. Gli altri due italiani in concorso a Cannes, Garrone e Moretti, avranno i loro difetti ma almeno non peccano in questo. Il primo merita la stima profonda per il coraggio di tentare una strada nuova per il nostro cinema: anche se c’è un grosso gap tra forma e contenuto, lo slancio creativo e l’onestà artistica sono altrettanto innegabili. Nanni Moretti, che è della vecchia generazione, e in qualche modo tratta un tema simile a quello di Youth, si spoglia di tutte le sovrastrutture per arrivare all’essenziale. La sua sincerità ha un valore universale.
Sorrentino in Youth copia se stesso che ha copiato qualcun altro. Camuffa come un prestigiatore una storia inconsistente. Dissemina di parrucconi, mascheroni, casi umani due ore di film, ossessionato dal termine “bellezza” che viene ripetuto con ogni scusa. La ridondanza svela un complesso, che Sorrentino prova a coprire con ogni artificio disponibile (e in questo è un maestro assoluto).
Youth e Mia Madre stanno come una donna, bella solo se truccata, sta ad una che non ha bisogno di make up per esprimere le sue qualità.
Federica Polidoro
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