Interstellar e il cinema della crisi
Il cinema degli ultimi anni si confronta sempre più spesso con la crisi, considerata non semplicemente come condizione economico-finanziaria ma come transizione da un’epoca all’altra. Lo fa usando mitologie e moduli narrativi che chiamano in causa la religione, la vicenda universale legata agli affetti e alla vita: nascita, morte, famiglia, generazioni…
Nel giro di pochissimo tempo abbiamo avuto Noah di Darren Aronofsky, Locke di Steven Knight e soprattutto Interstellar di Christopher Nolan. Sono tre opere diversissime tra di loro, ma accomunate dal senso profondo di questo attraversamento, e del mutamento radicale nel sistema di valori che esso comporta. I tre film sviluppano – ognuno secondo il proprio approccio e la propria modalità autoriale – una riflessione articolata e complessa sulla “fine di un mondo”, di un tempo, e su come si provoca e si concepisce l’inizio di un altro. Sui danni collaterali e i sacrifici che questo nuovo inizio comporta; sul peso che grava sulle spalle dei protagonisti di questo attraversamento. Ogni fine coincide, inevitabilmente, con un inizio: dal momento che l’apocalisse è per definizione stessa irraccontabile, la post-apocalisse è perciò anche e soprattutto la fase iniziale, primordiale di una nuova storia.
Noè, Locke e Cooper sono così tra gli ultimi a vivere un’epoca che muore, e i pionieri nella scoperta di un nuovo mondo e di un nuovo modo di stare al mondo. Inoltre, questa fine del mondo è singolarmente una “apocalisse di abitacoli”: è vista cioè sempre dall’interno di un abitacolo, di un veicolo (l’arca, l’automobile, l’astronave) che si muove sia materialmente sia metaforicamente all’interno della narrazione – conducendola, disegnando l’attraversamento con il proprio percorso. Il viaggio nello spazio si configura, così, sempre e comunque come viaggio nel tempo: da una preistoria (molto futuristica) alla Storia per Noè; dalla vita professionale guidata e regolata dagli standard altrui all’opzione eccezionale della responsabilità nel caso di Locke; infine, inserendosi negli interstizi tra le dimensioni spazio-temporali per Cooper.
È proprio Interstellar, già sviscerato, adorato e detestato come si conviene a ogni opera di Nolan – e in genere, a ogni capolavoro – a disegnare la mappa più fedele di un attraversamento che è posizionato nel futuro rispetto a noi, ma che parla ovviamente del nostro presente. Una civiltà che non sa più sognare, che non sa più guardare il cielo né progettare il proprio futuro, ma che si accontenta di amministrare squallidamente e tristemente il proprio presente, di sopravvivere: questa è la crisi indagata dal film. E questa indagine si aggancia immediatamente a livello visivo, nella rappresentazione del contesto in cui si verifica la lenta agonia del mondo come lo conosciamo, alla crisi-paradigma, alla crisi che funziona da riferimento assoluto per ognuna delle successive (e in particolare per questa): la Grande Depressione degli Anni Trenta.
Lo scenario che infatti noi spettatori vediamo ed esperiamo in tutta la prima parte del film non è affatto urbano (le città sono del tutto assenti da questo futuro ipotetico) ma rurale. È come se la realtà di Walker Evans e di John Steinbeck (con i suoi portici scrostati, le sterminate piantagioni di mais, le sale da pranzo invase dal sole e i furgoni polverosi) stesse improvvisamente davanti a noi, e non più alle nostre spalle: possiamo dunque immaginare Interstellar come una stranissima fusione tra Furore e 2001: Odissea nello spazio.
Si può dire dunque che l’operazione principale di Nolan a livello mitografico – insieme a moltissime altre – consista in uno scavo archeologico nell’immaginario culturale occidentale, alla ricerca dei semi di una resistenza umana che consiste, sempre e comunque, nella conquista di uno sguardo nuovo più che di un altro spazio. Il vero pianeta da raggiungere, di fatto, è un punto di vista inedito sulla realtà. Il pensiero culturale riesce a riconoscere nella massima chiusura di orizzonti (“chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso”), nella negazione di ogni possibilità, il momento in cui altri orizzonti si schiudono. Genera, attraverso il ricordo e la sua organizzazione in una forma narrativa, un immaginario (“quell’altro mondo”) che prima non esisteva nella percezione comune: si infila in un interstizio della realtà perché lo crea; si sposta tra le dimensioni e i livelli della realtà, riesce a muoversi quando tutte le altre forme razionali sono paralizzate.
Non ci resta che seguire l’esortazione dei versi di Dylan Thomas, continuamente citati nel film: “Do not go gentle into that good night, / Old age should burn and rave at close of day; / Rage, rage against the dying of the light”.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #23
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