Diciotto occhi sul Lago Film Fest 2015
Si è conclusa a inizio agosto l’11esima edizione del Lago Film Fest. Undici anni di apertura sul mondo dei cortometraggi e dei documentari filmati. Quest’anno c’erano anche “diciottocchi” a osservare la rassegna. E qui a parlare è proprio uno dei nove partecipanti al progetto.
L’ATMOSFERA DEL LAGO FILM FEST
Una Woodstock cinematografica, durante la quale l’odore del legno boschivo ha creato il contesto ideale ai nove giorni non-stop del Lago Film Fest e ha accompagnato l’enorme scorta di emozioni sensoriali e cognitive. Un accampamento sparso, composto di tende e camerate improvvisate dove ci si addormentava rivivendo le immagini del giorno appena trascorso e immaginando le scene del domani, come tanti frame di un film a episodi.
Una grande pellicola che aveva per trama le increspature di un lago, anzi del Lago, la cui superficie è stata usata in quest’edizione come simbolo tematico: una linea di confine tra il mondo reale e l’abisso misterioso di una dimensione parallela.
IL PROGETTO DICIOTTOCCHI
Le brevi suggestioni che si intendono testimoniare sono state raccolte grazie a una posizione privilegiata, quella dell’“osservatore interno”. Un osservatore speciale quindi, perché il festival ha anche sviluppato al suo interno il progetto Diciottocchi: un selezionato gruppo di nove persone che ha il compito di osservare il festival e di darne un’interpretazione. Il requisito è quello di non far parte del mondo cinematografico, ma di masticare creatività in ambiti diversi, come quello grafico, dell’illustrazione o della fotografia.
Aguzzare la vista e ricostruire in modo personale giornate tanto dense di stimoli non è di certo un compito semplice, ma di sicuro avvincente, e produrre qualcosa di proprio è un’ottima cartina tornasole della capacità di assorbire impulsi dall’esterno per trasformarli in qualcosa di nuovo. Perché il Lago Film Fest non è solo una rassegna di cortometraggi, documentari e sceneggiature, ma è un continuum di conferenze, workshop, incontri ravvicinati con registi, produttori, artisti da tutta Europa, e le serate sono condite di eventi musicali, performance e improvvisazioni.
LA VARIETÀ DELLE IMMAGINI
L’appagamento nello scoprire cosa sta dietro a un video, a un’inquadratura o a una sequenza a volte è emozionante, a volte struggente, altre volte esilarante. Provare questo coinvolgimento è stato possibile grazie ai vari approfondimenti su forme sperimentali di animazione o tecniche di montaggio non convenzionali: ci si riferisce ad esempio alle storie deliranti create dalle sequenze dei disegni abbozzati di Peter Millard oppure alle pillole di attualità rilette e montate in chiave umoristica dallo storico programma Blob.
Anche la competizione tra i corti in gara è stata all’insegna della più ampia varietà, grazie alla quale si è potuto assistere a documentari di ironia zoo-fantascientifica, tendere ponti meditativi tra l’architettura veneta e la poesia giapponese, assistere alla truce storia di un coniglietto disturbato, riflettere sulle problematicità di Paesi lontani… solo per citare le tracce di alcuni video.
PULSART, ENNESIMO PROGETTO DEL FESTIVAL
Una novità di quest’edizione è stata l’annessione di Pulsart, un progetto di residenze d’artista che hanno avuto come obiettivo la produzione di lavori di natura relazionale. Cosa non difficile, poiché una caratteristica fondamentale del festival è proprio la simbiosi tra la manifestazione e il paese ospitante, un rapporto di amore e sopportazione reciproci che dura da più di un decennio. È stata una prova interrelazionale tra vari ruoli, perché ogni artista, con la propria sfaccettata personalità, si è rapportato con uno o più abitanti del luogo, dando vita quindi a opere che parlassero una lingua familiare al contesto in cui sono state inserite o messe in scena.
Si è visto un gigantesco alveare per la preservazione delle api, sculture di stoffa tessute a mano, una performance basata su ricordi rivissuti, un testo nato dall’incontro (mai avvenuto) con un poeta del luogo, la condivisione di un ricetta culinaria che riflette la molteplicità delle sue varianti, infine dei drappi di carta progettati sulla base di disegni infantili.
E ALLA FINE…
Aver testimoniato i nove giorni di festival da un punto di vista critico-artistico non ha voluto dire mettere nero su bianco la cronaca di giorni ed eventi in sequenza, ma piuttosto soffermarsi su situazioni particolari in un groviglio di emozioni che non è stato necessario organizzare, ma solo raccontare nel modo più spontaneo possibile. Ha significato girovagare per il borgo e incontrare gli artisti mentre erano all’opera, confrontarsi, farsi un bagno nel lago, respirare l’atmosfera del luogo. L’immersione in questo mondo ha creato le varie suggestioni che il gruppo dei diciottocchi ha elaborato: segni, scatti fotografici e parole hanno dato una forma alternativa alla linfa che ha animato quei giorni, a volte in modo documentaristico, altre volte come vere e proprie rielaborazioni artistiche.
Credo che ci siano principi non esplicitamente dichiarati del festival ma che si sono affermati spontaneamente: in primo luogo il palesarsi del rapporto tra le arti, fatto di contaminazione e dialogo serrato, con il denominatore comune dell’indipendenza e dell’autoproduzione, nonché del sostegno reciproco tra varie realtà; non a caso durante il festival hanno trovato spazio anche riviste indipendenti e la presentazione dei loro progetti. Un altro aspetto della potenzialità del Lago Film Fest è senz’altro la dimostrazione tangibile che la cultura genera altra cultura, in un circolo virtuoso all’insegna del “darsi da fare”. Anche i diciottocchi, di cui ho fatto parte, ne sono la prova.
Matteo Gnata
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