Cinema. Quel mondo ospite di Venezia 72
A Venezia 72 il cinema si conferma mezzo insostituibile per comprendere una realtà sempre più in fuga verso il fantastico. Il mondo, con i suoi problemi sociali e politici, è entrato nella 72. Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia grazie a molti documentari di valore e film tratti da storie vere. Non si tratta di una crisi d'immaginazione da parte di sceneggiatori e registi, ha spiegato il direttore Alberto Barbera, ma di un fil rouge che unisce chi nel cinema vuole fornire una lettura d'insieme di eventi complessi.
In un documentario a lui dedicato, Carlo Lizzani (Il mio cinema) narra di come nel dopoguerra si dovesse “dare un’immagine” a chi non la possedeva ancora: i lavoratori. Difficile da immaginare nella società attuale, imagocratica, in cui ciascun individuo costruisce da sé la propria immagine pubblica, diffusa globalmente in tempo reale.
Per queste ragioni, uno dei film più interessanti è stato Winter on fire del regista russo Evgeny Afineevsky. Il documentario è stato girato sul campo durante i 93 giorni di braccio di ferro tra il presidente filorusso Viktor Yanukovich e il milione di persone radunate in piazza Maidan a Kiev. L’autore ha eretto un “monumento al popolo” immediato, semplice ed esaltante, capace di mostrare la lotta e il sacrificio degli ucraini determinati a far parte dell’Europa, di quella zona di libero scambio che significa libertà d’espressione e diritti civili. È da notare il ruolo di Facebook all’origine della prima adunanza di piazza, invocata tramite i post del giornalista attivista Mustafa Nayyem.
Al giornalismo è dedicato Spotlight di Thomas McCarthy, che affronta il “watergate Vaticano“, il caso dei preti pedofili a Boston. Il film dimostra quanto sia prezioso il lavoro delle redazioni investigative, oggi in pericolo a causa della crisi dei giornali. Il Boston Globe svelò nel 2002 il sistema di mediazione strettamente privata tra i “sopravvissuti” e la curia. Il film ricostruisce il sistema di protezione e le responsabilità del cardinale Bernard F. Law. L’inchiesta ha scoperto 249 preti pedofili e mille vittime. Law è stato trasferito a Roma e nominato arciprete dell’importante Basilica di Santa Maria Maggiore.
L’infanzia negata urla in Beasts of no Nation, diretto da Cary Fukunaga e tratto dal bestseller di Uzodinma Iweala. La tragedia dei bambini soldato africani rapiti, drogati, addestrati al genocidio e abusati dà vita a un film di rara violenza. Testimone dello sterminio della propria famiglia, Agu è costretto a conoscere una realtà cadenzata da riti tribali di iniziazione e massacri, in una guerra di tutti contro tutti condotta da un comandante che ricorda la follia del generale Kurtz di Apocalypse Now. Ricominciare sarà impossibile, come spiega nel monologo finale Abraham Attah (Agu), premiato come miglior interprete emergente.
La storia e la cultura europea sono protagonisti in Francofonia di Aleksander Sokurov. Il regista di Arca Russa e Leone d’Oro 2011 ci porta dentro il Louvre, da lui descritto come il cuore d’Europa, lo specchio di un continente che si è costituito come popolo grazie alla pittura e, più specificamente, al ritratto. Il regista russo, ancora una volta in concorso, intreccia riprese d’archivio e fiction, portando il cinema in una dimensione ipertestuale utile a costruire un “trattato” audiovisivo sul ruolo dell’arte nella costruzione dell’identità Europea.
Una lettura del reale può avvenire anche tramite la distopia. Così fa Equals, film in concorso di Drake Doremus (premio Sundance 2011 con Like Crazy), che traghetta Romeo e Giulietta in una società futura asettica e produttiva, ossessionata dalla scienza spaziale e terrorizzata dalle emozioni. Un film che si avvicina pericolosamente all’estetica di uno spot di moda, complici le scene e i costumi total white, ma che infine sa rendere la bellezza del sentire. Buon esempio di come fare un cyber movie con poco: un’architettura minimalista, della non cattiva recitazione e tanta regia.
La realtà più concreta e colta in presa diretta appare nel documentario di Frederick Wiseman. Il suo Jackosn Heights ritrae il quartiere del Queens, in cui si parlano 167 lingue. Leone d’Oro alla carriera 2014, il regista 86enne procede dentro i flussi vitali di una comunità mettendosi a fianco delle cose che accadono. Ogni luogo del quartiere diventa così la scena su cui si “recita”, in diretta e senza sceneggiatura, la commedia umana. Ogni ambiente reale assume i tratti di una scenografia, ogni persona vera diventa un personaggio letterario. La grande forza espressa dal film è tratta dal potere rivelativo della realtà stessa.
Rabin, the Last Day di Amos Gitai è il film più politico della mostra e avrebbe meritato almeno il Leone d’Argento alla regia, andato invece all’argentino Il Clan, tratto anch’esso da una storia vera. Il 4 novembre 1995 il primo ministro pacifista israeliano Yitzhak Rabin viene assassinato. Chi preme il grilletto non è un palestinese dei territori occupati o un terrorista di Hamas, ma uno studente israeliano 26enne della scuola talmudica, innescato da una cultura religiosa ultraortodossa al cui vertice siedono i rabbini più conservatori. Hanno “condannato a morte” Rabin invocando su di lui la “legge dell’informatore”, il cosiddetto Din Rodef, una maledizione talmudica. “La violenza di matrice religiosa sta crescendo nel cuore della società laica israeliana”, dice preoccupato Gitai, e ne fa un film d’impegno civile ricostruendo l’inchiesta governativa sull’attentato.
Malgrado il fil rouge, a Venezia 72 inaspettatamente vince un film non basato su fatti accaduti. Desde Allà, di Lorenzo Vigas è un film venezuelano che narra una storia privata, per quanto engagé. Da non perdere invece Human, toccante affresco dedicato al mondo e all’umanità del francese Yann Arthus-Bertrand e Remember di Atom Egoyan, un thriller dove la terza età fa i conti con il nazismo. In attesa che i film escano nelle sale italiane, ci si rende conto di come il cinema resti un valido strumento di comprensione, anche emotiva, di realtà e scenari politico-sociali che rischiano di frantumarsi nella cronaca, di dissolversi nella lenta agonia di notiziari che rendono atto dei fatti ma non possono accedere, per loro costitutiva incapacità, al senso complessivo di un fenomeno. Ciò è possibile soltanto attraverso un processo di rielaborazione e di presa di distanza, anche temporale. Cosa che il cinema, quando vuole, sa fare egregiamente.
Nicola Davide Angerame
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati