Quanti ne vedete in giro come Marlon Brando?
Non c’è un’occasione particolare, un anniversario, un premio. Ma per certi personaggi non è necessaria una “scusa”. Parlare di Marlon Brando, della sua recitazione, della sua iconicità, è sempre utile. Come quando Truman Capote andò a intervistarlo e lui…
UN ESPERIMENTO CON MARLO BRANDO
Care lettrici, cari lettori, vi invito a un esperimento.
Cercate su Google la famosa immagine di Marlon Brando sul set de Il Selvaggio in sella a una moto Guzzi: un Marlon Brando 29enne nei panni del capobanda Johnny nel film del 1953 diretto da László Benedek. Riflettete sul fatto che quel film fece istantaneamente raddoppiare in America le vendite di jeans e giacche di pelle, e addirittura le condannò al bando – in quanto simbolo inaccettabile di una cultura giovanile ribelle alle regole e alle convenzioni – nelle regioni più tradizionali degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Conoscete, oggi, una persona capace di un simile impatto?
Esiste, in inglese, un’espressione per descrivere quelli (i pochi) come Brando. Larger than life. Cioè un personaggio così leggendario da apparire più ingombrante della persona stessa. E dire che, anche di persona, Marlon era imponente. Quando ad appena 23 anni sbarcò a Broadway, nel 1947, nel ruolo del bruto Stanley Kowalski di Un tram che si chiama Desiderio, la sua era una presenza fisica di attore così radicalmente diversa dalla norma – bicipiti da scaricatore di porto, torace da body builder, volto angelico – che fornì il perfetto sex symbol alla nuova America uscita dalla guerra con una profonda voglia di cambiamento.
Ancora oggi, guardare l’adattamento cinematografico dell’opera di Tennessee Williams, diretta da Elia Kazan nel 1951, colpisce, forse ancora più che per lo straordinario talento di Brando, per la sua modernità. Nella recitazione, nel portamento, persino nell’aspetto, sembra calato nel film dal futuro. Prima di James Dean, prima di Elvis Presley, è lui il prototipo della nuova mascolinità.
UN SOLO AGGETTIVO: LEGGENDARIO
Marlon Brando era leggendario in tutto. Per esempio, nella capacità quasi sovrumana di risollevarsi, dopo un decennio di flop e un’apparente condanna all’oblio, in un solo anno, il 1972, con due titoli che passeranno alla storia. Il padrino di Francis Ford Coppola, definito da Stanley Kubrick “probabilmente il più bel film che io abbia mai visto“. “Il più liberatorio” e “il più potentemente erotico” furono invece i superlativi che Pauline Kael, leggendaria critica del New Yorker, usò per Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, la storia di due solitudini che si incontrano in un’avventura di sesso e disperazione. Che, a causa di certe scene certo ai confini dello shock, una vergognosa sentenza della magistratura italiana condannò al rogo. Solo poche copie si salvarono, e solo nel 1987 il film poté uscire in sala. Per cinque anni, il regista fu privato dei diritti civili (in pratica, non gli fu concesso di votare) per “offesa al comune senso del pudore“.
Leggendario nell’ignorare questa e altre reazioni scandalizzate: come quando, proprio per Il padrino, vinse il secondo Oscar e mandò a ritirarlo una nativa americana, per protesta contro il “genocidio culturale” messo in atto da Hollywood contro quel popolo.
Penosamente leggendario nel privato. Incapace di far stare la sua grandezza, e anche la sua megalomania, dentro i confini di un’esistenza “normale”. Condannato a condannare all’infelicità le sue donne, i suoi figli soprattutto. A sopravvivere a troppe tragedie, e a morire solo, undici anni fa.
ELIA KAZAN E LA RECITAZIONE
Marlon Brando ha sempre avuto più nemici che amici. Non a caso, la più memorabile intervista che abbia mai concesso è una di rara perfidia. Era il 1957, stava girando Sayonara in Giappone e Truman Capote, il più grande scrittore della loro generazione, andò a fargli visita per conto del New Yorker.
Ma, tra una sbruffonata e l’altra, esce fuori un Brando fascinosamente immaturo, a tratti dolorosamente sincero, reduce da un successo precocemente stellare, in bilico sull’abisso di un futuro che non può immaginare. Un ritratto che, con gli occhi di oggi, vale ancora di più.
A un certo punto di questa intervista, Marlon Brando disse una cosa bellissima: “La recitazione è una cosa talmente impalpabile. Una cosa fragile e timida che un regista sensibile può aiutarti a tirare fuori. Su un set cinematografico, questo momento cruciale arriva verso il terzo ciak, se hai un regista capace di evocarlo. Gadge [il soprannome di Elia Kazan, N.d.R.] in questo è bravissimo. Con gli attori è meraviglioso“.
Proprio un film diretto da Kazan, Fronte del porto, contiene una delle più memorabili scene di Marlon Brando: il tragitto in auto durante il quale Rod Steiger, nei panni del suo fratello venduto alla malavita, confessa che lo sta portando verso un’imboscata mortale. Da quando vidi per la prima volta il film, mi sono sempre chiesta se questo fosse l’esempio cruciale di cui parlava.
QUANDO BRANDO ERA BUD
Benché nato nel Nebraska, dove suo padre faceva il commerciante di mangimi, Brando – terzogenito e unico maschio – traslocò presto a Libertyville, Illinois, dove la famiglia si installò in una grande ed eccentrica casa. Mungere la mucca era il compito quotidiano di Bud, come veniva allora soprannominato Marlon. Bud era, a quanto pare, un ragazzino estroverso e competitivo. Ribelle, anche: non c’era domestica che non fuggisse di casa. Ma, come le sorelle, era attaccatissimo alla madre.
La signora Brando recitava da protagonista nelle piccole compagnie teatrali del posto, e da sempre sognava le luci della ribalta. Suo figlio, che aveva dissuaso da certe iniziali ambizioni impiegatizie, e che nel 1942 era stato scartato dall’esercito per via di un ginocchio infortunato, fece le valigie e partì per New York. Addio a Bud l’adolescente grassottello e infelice dalla zazzera bionda: è il momento di Marlon, l’uomo fatto, il talento.
Ma Brando non ha mai dimenticato Bud e, quando parlava del ragazzo che era stato, sembrava ancora abitato dal suo spirito. Credo che la cosa più bella di lui, l’abbia detta Sean Penn: “Raccontare Brando con le parole è come pretendere di spiegare l’architettura danzando“.
Jussin Franchina
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