Mostra del Cinema. Omaggio a Claudio Caligari
Venezia ha reso omaggio a Claudio Caligari, regista prematuramente scomparso proprio durante il montaggio del suo ultimo film. “Non essere cattivo” è uno spunto per riflettere sul cinema presentato al Festival del Cinema di Venezia come spaccato di un momento di transizione nella narrazione visiva.
CINEMA DI NICCHIA, SUO MALGRADO
Pontile di Ostia, esterno-giorno, Vittorio mangia un cono gelato e Cesare lo raggiunge. Ed è subito: “Ma come? Dovemo svolta’ e te te piji er gelato”, battuta cult di Amore tossico (1983). Così Claudio Caligari si autocita nel suo Non essere cattivo, presentato postumo alla 72. Mostra del Cinema di Venezia. E nonostante la nota di polemica introdotta in conferenza stampa da uno dei produttori, che avrebbe voluto la pellicola in concorso per il Leone d’Oro, la decisione di Barbera appare saggia.
In Sala Grande la risposta del pubblico è stata un’ovazione da stadio che supera l’apprezzamento del film per confondersi a emozioni di diversa natura, dalla felicità per un film che vede la luce nonostante tutto, alla rabbia per ciò che Caligari non ha potuto raccontare, fatti salvi i due titoli che chi ama il cinema conosce. Non essere cattivo ha assunto infatti la portata di manifesto in difesa di un cinema d’autore, peraltro amatissimo dal pubblico, escluso dal circuito produttivo e distributivo, costretto non per propria scelta a essere di nicchia.
La pellicola ha ottenuto l’abbraccio solidale di chi quei film invece vuole farli e vederli. Primo fra tutti Valerio Mastandrea che, con Claudio Caligari, è nato come attore, e da figlio del suo cinema si è battuto appellandosi finanche a Scorsese per portare a termine il lavoro al meglio e prima che fosse troppo tardi.
I LIMITI DEL FILM
Caligari ha seguito con lucidità le riprese e il pre-montaggio di Non essere cattivo e ha lasciato indicazioni ben precise a chi avrebbe avuto il compito di completare il film. E osservando la sua parabola artistica, è coerente che lui non abbia solcato il red-carpet, perché questo successo deriva dal sacrificio di una vita e di una morte dedicate solo al cinema.
Non essere cattivo è lontano dal miracolo compiuto con Amore tossico, anche lì era tutto così visceralmente vero da finire con la morte, dentro e fuori dal set. Quella leggerezza, che era la poesia dei trent’anni di Caligari, non si ritrova nel film visto a Venezia. E manca anche la perfezione sporca de L’odore della notte (1998): Luca Marinelli e Alessandro Borghi sono straordinari nel vestire i panni di Vittorio e Cesare, parti difficili da restituire, a rischio altissimo di caricatura, ma quel trionfo di spontaneità, che è il cinema quando racconta la vita vera, non è presente come nei primi due capolavori. Piuttosto si intravede il disagio di non riuscire più a decifrare un presente che fino a ieri era complicato ma leggibile, e di cui le categorie pasoliniane minacciavano l’avvento senza però spiegarle.
QUANDO LA COCA SI TIRAVA IN LIRE
Caligari ha raccontato l’ultima manciata degli Anni Novanta: la cocaina si tira ancora in lire, di cellulari e Internet neanche l’ombra. In fondo, una specie di preistoria rispetto alla mutazione antropologica che è venuta subito dopo. C’è ancora spazio per una storia di amicizia senza dispositivi digitali, e di amori fisici.
Alcune scene sono di un lirismo visionario, come quella in cui Cesare ama così tanto la sua donna da immaginare la nuova casa fatiscente in cui si sono appena trasferiti invasa da una prole di piccole Viviana. Bella anche la bavetta dell’orsacchiotto della nipotina, il cui ricamo dà il titolo al film. I titoli, a proposito, nel cinema di Caligari sono importanti quanto i film, perché ne racchiudono un senso così forte da coniare persino atmosfere e concetti.
Anche stavolta Roma è la periferia di un universo che si concentra a Ostia, e viene citata solo come meta criminale di spaccio e rapine. Ostia è l’ombra della Grande Bellezza (pure Sorrentino non scherza in fatto di titoli) come il cinema di Caligari lo è rispetto a quello fatto da chi trionfa da vivo. Nel leggere le note di regia di Non essere Cattivo appare ancora più evidente che l’unica chiave di lettura resta dichiaratamente Pasolini, che è pure la scelta – forse non sapremo mai se consapevole o meno – di trincerarsi dietro una lente che offre un rifugio rispetto al caos interpretativo in atto.
Ma anche in questo Caligari è sincero: in lui l’uso di Pasolini non ha risvolti glamour o modaioli, il regista vi si riferisce con rigore, serietà e un certo timore. Per questo la pellicola oltre che parlare degli Anni Novanta sembra girata negli Anni Novanta. E forse per lo stesso motivo non possiede la forza innovatrice delle due precedenti.
AEREI E TORRI A VENEZIA
L’imbarazzo di una perdita di parametri interpretativi era nell’aria a Venezia e viene esplicitamente denunciato nel dialogo tra il Conte-Vampiro/Roberto Herlitzka e il suo dentista in Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio, uno sconforto dato da qualcosa di più del sentirsi fuori dal mondo solo per motivi anagrafici.
Questa riflessione si insinua anche in Heart of Dog di Laurie Anderson, che individua nell’11 settembre 2001 una soglia – visualizzandola con la nuvola di polvere delle Torri Gemelle – che ha reso incomprensibile il dopo, tanto da affidarne la decodifica a Lollabelle, il suo cane non vedente. Ci prova Skolimowski col suo 11 minutes, undici minuti raccontati in ottantantuno, con immagini riprese da diversi punti di vista, smartphone, videocamere a circuito chiuso, specchi. E poi un aereo che misteriosamente fa ombra sulla città sfiorando i grattacieli. Tante vite che si incontrano al minuto 11/81, dipanandosi come se la vicenda, sino a quel punto, si fosse in realtà svolta a ritroso, mutando la fine in origine. Il risultato è un film che sembra un videoclip che imita un film. E nei titoli di coda le videocamere a circuito chiuso si moltiplicano sino a divenire rumore visivo.
LA CINA ALLE PRESE COL XXI SECOLO
Anche le cinematografie orientali sembrano alla ricerca di uno sguardo che possa rappresentare il cambiamento repentino che ha investito la Cina: Lao Pao Er – Mr Six di Hu Guan racconta dello scontro generazionale tra bande, e ciò che più scandalizza il vecchio protagonista è la vacuità degli adolescenti e la rottura dei codici millenari; Jia – The Family di Shumin Liu è un film di 280 minuti che narra il quotidiano di una famiglia dal punto di vista di una coppia di anziani, anche in questo caso il tema intorno a cui ruota questo emblematico film è l’incapacità di capire la nuova Cina; sino a Beixi mousho di Liang Zhao, fotografia strepitosa e nessun dialogo, solo dei sottotitoli liberamente tratti dalla Divina Commedia che commentano l’inferno delle miniere e delle città fantasma nella Mongolia travolta dal capitalismo selvaggio.
In tutti i casi il punto di vista è quello di uomini maturi, in cui i registi, molto più giovani a sorpresa si identificano (Shumin Liu ha 41 anni, Hu Guan 47, Liang Zhao 44), trovando più rassicuranti e affini le generazioni del passato che quelle più vicine anagraficamente e, cosa ancora più interessante, rimpiangendo con nostalgia granitica il passato.
RIFUGIARSI NEL DOCUFILM?
C’è poi un’altra chiave di lettura che è il docu-film, tipo di narrazione prediletta in questo Festival, dal Rabin, the Last Day di Gitai ai tanti titoli presenti nelle altre sezioni. In questo caso la scelta dei registi è quella di raccogliere dei materiali e montarli come se fossero degli speciali giornalistici. Probabilmente perché è dall’informazione che oggi provengono le storie e le immagini forti, e si fa fatica a tradurli in una fiction che risulti più coinvolgente del dato reale. Dalle Torri Gemelle alle video esecuzioni dell’Isis ai funerali dei Casamonica, è chiaro che la capacità di impattare visivamente sulla realtà è stata interiorizzata persino dai criminali e dai loro fortunati format, e paradossalmente sono proprio i professionisti dell’immagine a trovarsi spiazzati di fronte a tutto questo.
Una soluzione può essere forse rifugiarsi in passati ancestrali spingendosi sino al Pacifico meridionale come in Tanna, dove Bentley Dean e Martin Butler (documentaristi!) decidono di raccontare la storia d’amore di due aborigeni. O ancora narrare di guerriglie nella giungla africana che in fondo sono sempre le stesse da un secolo, scelta di Cary Fukunaga in Beast of No Nations. Fino a rinunciare del tutto agli essere umani e descriverne lo spaesamento attraverso pupazzi in stop motion come fa Charlie Kaufman in Anomalisa.
E allora sorge il dubbio che a mancare in questa fase storica del racconto per immagini sia proprio la capacità di saper scorgere la nuova umanità dell’uomo, la sua complessità psichica, per depositarla dentro una storia da guardare però con occhio contemporaneo. A cuor leggero, come suggerisce Riccardo Sinigallia nei titoli di coda di Non essere cattivo.
Mariagrazia Pontorno
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati