Un supereroe all’italiana. È arrivato Jeeg Robot

“Lo chiamavano Jeeg Robot” è il film del momento, quello che stavamo aspettando dopo il mezzo fiasco del “Ragazzo Invisibile” di Gabriele Salvatores. Il trio Mainetti-Santamaria-Marinelli, tutti in forma strepitosa, realizza – anche grazie a un’ottima sceneggiatura e scenografia – un film coraggioso, destinato a diventare un piccolo cult nostrano.

UN SUPEREROE A ROMA
In Lo chiamavano Jeeg Robot, quello che ha veramente i superpoteri è il regista, Gabriele Mainetti. Piazzare un supereroe a Tor Bella Monaca, non sarebbe riuscito nemmeno al regista hollywoodiano più visionario: un po’ come se le vicende di Iron Man fossero ambientate a Montauk invece che a Manhattan. Il contesto in cui il regista ambienta tutto il film è fondamentale e decisivo: Roma è presa di striscio e la narrazione predilige la borgata, l’edilizia selvaggia e una fauna costituita, per lo più, da coatti e anonimi. La scenografia – che è tra i punti forti del film – rende Roma una via di mezzo tra quella vista in Suburra, dove il crimine è reso anche da scene allegoriche, e quella raccontata da Paolo Sorrentino ne La grande bellezza e da Gianfranco Rosi in Sacro Gra, ma più sfumata. Le grosse differenze tra queste Roma sono soprattutto due: Mainetti non ha paura di catapultare Roma in futuro di attentati terroristici – a differenza di Suburra, dove il crimine serpeggia, stringe accordi e comanda dal retroscena – e non ha paura di farci vedere una Capitale più vicina al cinema di Pasolini che a quello dei già citati Sorrentino e Rosi. In mezzo a tutto ciò, il regista compie altre due scelte coraggiose: rievocare una sottocultura degli Anni Ottanta – i fumetti – e prendere il testimone di un tipo di cinema che, in Italia, non ha mai avuto fortuna – quello di genere.

CINEMA SENZA RETORICA
Il filone cinematografico su cui Mainetti viaggia è quello aperto da Elio Petri con La decima vittima (1965) – ambientato in una Roma futuristica su cui avevano messo le mani Ennio Flaiano e Tonino Guerra – continuato, più recentemente, da Eros Puglielli con Tutta la coscienza del mondo, dai Manetti Bros. con L’arrivo di Wang e da Gabriele Salvatores con il Ragazzo invisibile. Con Lo chiamavano Jeeg Robot, Minetti si scrolla però di dosso la retorica di certi personaggi e gira con un dinamismo che ultimamente si è visto solo nei lavori di Stefano Sollima; tant’è vero che la regia di Mainetti ricorda di più quella di Matteo Garrone in Gomorra (da cui evidentemente ha preso qualcosa), che tutte le regie del genere sopra citate.

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JEEG ROBOT ALIAS SANTAMARIA
Il supereroe di Mainetti è atipico: non ha interesse nel far del bene, usa i suoi poteri per fini personali ed è maledettamente pigro. Questo è il profilo di Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), accattone moderno, esemplare che si aggira tra i palazzoni di Tor Bella Monaca, si nutre di soli yogurt e vive di piccoli espedienti criminali. Finché, dopo un inseguimento con la Polizia, è costretto a tuffarsi nel lerciume del Tevere: qui entra in contatto con dei rifiuti radioattivi. L’indomani, Enzo Ceccotti si sveglia che è una sorta di Hulk. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità, diceva Spider Man; ecco, Enzo Ceccotti questo non lo sa e forse nemmeno gliene frega. Tant’è che la prima cosa che fa, appurata la super forza, è sradicare un bancomat e non di certo salvare un’anziana da un incidente. E questo, al pubblico, è piaciuto molto. Ma a Roma, in quella Roma criminale e becera, uno con dei superpoteri non resta indifferente, soprattutto se la sua vicina di casa Alessia (Ilenia Pastorelli) è una bambina rinchiusa in corpo di donna con la fissa per Jeeg Robot d’Acciaio.

TRA BATMAN E SORDI
L’intreccio narrativo è ottimamente scritto da Nicola Guaglianone ed è proprio la sceneggiatura – la cui parte fumettistica è stata curata da Menotti – che rende Enzo ‘Jeeg Robot’ Ceccotti il miglior supereroe italiano mai visto al cinema. La ricetta di Mainetti comprende: inquadrature soggettive, grandangoli che deformano i volti, estetica cartoonesca dei primi Coen, prospettive particolari, l’uso di macchine a mano che aumentano il dinamismo delle scene, il gangsta-movie, Batman e Sordi, il grottesco, Park Chan-wook e Holly e Benji. Ed è assurdo come tutta questa roba insieme non risulti una paranza inservibile, ma aspiri a diventare un piccolo cult (è pur sempre il primo lungometraggio del regista). E se ciò non fosse abbastanza, c’è anche Luca Marinelli, semplicemente strepitoso, che interpreta la parte dell’antagonista: lo Zingaro è un piccolo criminale con un solo pallino, “fare er botto”. Di garroniano, ne lo Zingaro, c’è lo psicopatico desiderio del successo mediatico (leggi: Reality), tant’è che pubblica le sue scorribande su YouTube e l’odio verso Enzo Ceccotti nasce dall’invidia della sua popolarità dovuta ai suoi super poteri; mentre l’interpretazione di Marinelli ricorda il Tony Manero di Pablo Larrían, che canta Anna Oxa, balla con i tacchi, ma ammazza con una freddezza da killer.

Luca Marinelli in Lo chiamavano Jeeg Robot - photo Emanuela Scarpa

Luca Marinelli in Lo chiamavano Jeeg Robot – photo Emanuela Scarpa

LONTANO DAGLI STEREOTIPI
Quello che a Salvatores, con Il Ragazzo Invisibile, non è riuscito, a Mainetti invece sì. La poetica del film – la rivincita personale, la narrazione spietata e l’incredibile normalità del supereroe – è comprensibile a tutti, e l’aver reso Enzo Ceccotti lontano dagli stereotipi tipici del supereroe americano, ma più vicino all’essere moderno comune, ci ha dato una piccola speranza e ci ha fatto tifare per lui. E se fisicamente Claudio Santamaria ricorda più Tom Hardy nel ruolo di Bane, il nemico di Batman (per l’occasione l’attore romano è arrivato a pesare 100 chili), come eroe, diretto e disilluso, ci ricorda Alberto Sordi quando diceva: “Perché a Roma, se correvi come un matto, poteva voler dire solo che scappavi”. E Jeeg Robot corre un sacco.

Paolo Marella

www.lochiamavanojeegrobot.it

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Paolo Marella

Paolo Marella

Barese, classe 1987, trapiantato maldestramente a Venezia. Laureando in Economia e Gestione dei Beni Culturali all'Università Ca' Foscari, coltiva da anni una forte passione per l'arte e la scrittura. Gli piace il mondo della comunicazione: quest'anno ha lavorato nell'ufficio stampa…

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