Incontri internazionali. Fra arte e cinema
Dal 15 al 20 marzo, Berlino ha ospitato la nuova edizione del festival dedicato all’immagine in movimento e al confine, sempre più labile, fra cinema, performance e discipline visive. Les Rencontres Internationales – che unisce, fin dalle origini, Parigi e Berlino – ha gettato nuova luce sulle novità della settima arte.
QUANDO L’ARTE INCONTRA IL CINEMA
Dal cinema vero e proprio all’arte contemporanea sta emergendo un’urgenza di confronto e contaminazione. Noti ed emblematici sono i casi come Under The Skin del regista anglo-americano Jonathan Glazer definito un art film tanto quanto le produzioni sempre più hollywoodiane di Matthew Barney, come l’ultimo River of Fundament, in anteprima italiana nei giorni di Arte Fiera a Bologna, la serie Future Relic che ha rappresentato il debutto “cinematografico” ad Art Basel Miami dell’artista multidisciplinare Daniel Arsham o la vera e propria ipotesi di questa con-fusione di linguaggi nel lavoro di Philippe Parreno, esplicitata nella conversazione avviata dalla mostra Hyphotesis all’HangarBicocca a Milano, tra il curatore Andrea Lissoni e Marco Muller, già direttore artistico di importanti festival cinematografici, tra cui Rotterdam, Locarno, Venezia e Roma. Esiste poi un’onda della sperimentazione tutta francese, che elegge ne Le Fresnoy, lo studio nazionale di arti contemporanee, il suo polo d’innovazione per quanto concerne la commistione di un ampio spettro di linguaggi audiovisivi e tecnologie.
DA PARIGI A BERLINO
Non stupisce quindi che sia proprio la Francia a incoraggiare un discorso sull’immagine in movimento, con Les Rencontres Internationales, il festival di new cinema and contemporary art, che dal 1997 ha riunito tra Parigi e Berlino, dal Centre Pompidou al Palais de Tokyo, all’Haus der Kulturen der Welt, artisti e filmmaker di fama internazionale, inaugurando nel 2007 un nuovo appuntamento anche a Madrid. È bello vedere una correlazione indiretta di questo incontro nel concetto di cabaret alla francese, contesto di spettacolo in cui si sono innestate importanti correnti artistiche, come il dadaismo e il surrealismo, o alla tedesca ai tempi di Weimar, dove questo luogo ha rappresentato un grande territorio di libertà. L’idea di far convergere le arti mettendo al centro prima il teatro e poi il cinema, non rappresenta qualcosa di nuovo, ma sicuramente fuori da ogni avanguardia. È nuova l’idea di pensare al cinema in dialogo con le altre arti, dopo aver subito un importante condizionamento da parte della macchina produttiva hollywoodiana e della sua visione della narrazione cinematografica come forma culturale di natura prevalentemente popolare. Per cui il ricco calendario di screening, video, tavole rotonde e forum portato a Berlino in occasione de Les Rencontres Internationales, rappresenta prima di tutto una riflessione sulla trasformazione di questa narrazione attraverso lo sguardo della contemporaneità.
UNA RIFLESSIONE SULLA SETTIMA ARTE
Experimental fiction, documentario, forme ibride di rappresentazione tra la video installazione e la live performance diventano oggetto di un’esplorazione che prende avvio da una domanda fondamentale: che cosa ci aspettiamo di vedere nel buio di una sala, su un grande schermo, seduti su comode poltroncine rispetto a una galleria d’arte dove la fruizione è molto più episodica e frammentata? Temo non basti una speculazione sulla visual culture e l’immagine in movimento, sul suo impatto emotivo fondativo analogo a quello della locomotiva dei Lumière.
Il tempo e l’accelerazione a cui siamo sottoposti dal mondo della comunicazione suggeriscono di sviluppare questa indagine tenendo conto non solo degli aspetti sperimentali, ma anche delle abitudini del pubblico, della distribuzione di questo tipo di cinema, della sua destrutturazione narrativa e del concetto di durata, perché, se di cinema stiamo parlando, occorre confrontarsi anche con i suoi formati canonici. Senza forzare risposte definitive, a Les Rencontres Internationales si transita fra diverse posizioni con 120 lavori, di artisti e autori provenienti da 40 Paesi.
LA THAILANDIA DI APICHATPONG WEERASETHAKUL
Che cosa succederebbe se un giorno potessimo vivere l’esperienza della caduta di una nuvola? Immaginiamo quel vapore bianco, diffuso, denso e rarefatto, su cui di solito fantastichiamo dal vetro di un finestrino, improvvisamente in mezzo a noi. Immaginiamolo uscire, come in un’incontenibile pentola a pressione, dalle case, guardiamolo percorrere a tutta velocità le strade di un villaggio, lasciamoci avvolgere da una nebbia soffice e abbandoniamoci alla perdita di ogni punto di riferimento. Questa è esattamente la sensazione immersiva di Vapour, del prolifico regista thailandese Apichatpong Weersethakul, protagonista indiscusso della thai scene sperimentale dai primi Anni Duemila e autore di Cemetery of Splendour, premiato nella sezione Un Certain Regard a Cannes 2015, che segue la Palma d’Oro vinta nel 2010 per Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives. Girato in un piccolo villaggio di una Toongha dimenticata e sonnolenta, Vapour colpisce per l’incredibile potenza visiva dei paesaggi, della fotografia in bianco e nero poco contrastata e di questa nube pervasiva che sembra uscire dallo schermo per invadere l’intera sala. Riflessioni sulle stile a parte, si tratta di un’opera che affronta importanti tematiche sociali e politiche, riguardanti la gestione di un territorio da sessant’anni in opposizione al governo thailandese. Un tema di attualità, tradotto ancora una volta attraverso il linguaggio dell’art film, per un regista indipendente che da sempre percorre il confine della produzione cinematografica del suo paese, privilegiando strutture narrative non convenzionali. A intensificare l’impatto emotivo della proiezione oltrepassando la frontalità della fruizione cinematografica in favore di quella performativa, l’accompagnamento musicale live di Michael Bush.
LA SOSPENSIONE DI SEBASTIAN DIAZ MORALES
Tra realtà e finzione, Suspension ci prospetta una lenta e inesorabile caduta, a simboleggiare il rapporto dell’uomo col suo passato, presente e futuro. Un peso eterno che ci porta a fondo, come nei sogni, passando dalla coscienza alla realtà di un messaggio meta-cinematografico riconducibile alla presenza di una troupe che accoglie un tonfo che non vediamo. Un’esperienza visiva che ci assorbe, intimorisce e libera, come in un vortice psichedelico, enfatizzata dal rumore ovattato dell’aria sul corpo e dal compatto colore giallo e arancio del fondo che diventa progressivamente più intenso con l’avvicinamento alla terra. Un film breve diretto dal video artista Sebastian Diaz Morales, che frequentemente si addentra nell’esplorazione di tematiche e conflitti socio-politici combinando linguaggi come il documentario e il cinema sperimentale e strizzando l’occhio alla fantascienza e al realismo magico.
DOROTHÉE SMITH E LE SPETTROGRAFIE
Un percorso notturno e solitario, attraverso strade nude, edifici vuoti e territori disabitati alla ricerca di fantasmi. Spectrographies è un film che fa incontrare road movie e documentario, ma con un’atmosfera squisitamente francese. Si tratta di una narrazione che dialoga con l’assenza e con la ricerca di un amore, ma è anche un errare ontologico che traduce l’idea derridiana del cinema come “scienza di fantasmi”. Un’opera di confine da un punto di vista dei linguaggi ed estetico, dalla fotografia impeccabile fino alle rilevazioni spettrografiche, per un’autrice in perpetuo transito tra il buio e l’illuminazione e che ha affrontato a più riprese tematiche legate all’identità e al genere. Laureata in filosofia alla Sorbona e con vari degree autorevoli, dalla French National School of Photography of Arles all’Aalto University di Helsinki, Dorothée Smith è una delle voci più rappresentative anche de Le Fresnoy, di cui condivide l’approccio all’innovazione linguistica ispirata dalle tecnologie e orientata alla multimedialità.
Carlotta Petracci
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