Creed: il risveglio di Rocky Balboa
“Eh no, l’ennesimo episodio della saga di Rocky Balboa proprio non voglio vederlo”. In molti se le sono ripetuto, e hanno disertato le sale cinematografiche che davano “Creed”. Ma è stato un errore di valutazione. Ecco perché, secondo il nostro Christian Caliandro.
UN FILM MALINCONICO
Hanno perfettamente ragione tutti coloro che hanno sottolineato quanto Creed – Nato per combattere sia in realtà, contrariamente alle apparenze spaccone, un film delicato. Nell’opera seconda di Ryan Coogler – dopo la rivelazione di Fruitvale Station (2013), apologo sulla violenza della polizia contro i neri in America, ispirato a un fatto realmente accaduto – Sylvester Stallone dismette finalmente il ruolo dell’eterno “ritornante”, del campione che non vuole arrendersi allo scorrere del tempo e della vita.
E si abbandona pienamente a quella nostalgia, a quel rimpianto, a quella malinconia che ce lo avevano fatto amare in alcune scene degli ultimi episodi – le parti, sempre troppo compresse, dedicate ai ricordi e alle rievocazioni, magari in compagnia di un brillo Paulie. E qui Rocky ci appare finalmente per quello che è, e che forse è sempre stato fin dal fulminante (e inarrivabile) esordio del 1976, fotografato tra muri diroccati e squallide periferie, immerso nell’odore di sudore e povertà, con il cappello calato e l’andatura dinoccolata di uno sconfitto dell’esistenza – baciato per un attimo, uno solo, dalla fortuna.
IMBOLSITO E QUINDI UMANO
Qui il cappello è leggermente cambiato, ma la sconfitta è sempre quella. Più amara, perché la fine si avvicina. La fine è la malattia, il dolore, l’ospedale; il corpo – che è stato vanto, simbolo incontrastato degli Anni Ottanta e strumento – in disfacimento. Si disfa come il suo volto mentre finalmente si lascia andare al sentimento rabbioso della perdita, l’ingiustizia assoluta che continua sempre a tormentarci nonostante ci diciamo che il tempo guarirà le ferite (e non è vero, mai): “Tutto quello che avevo… non c’è più. Resto solo io”. A dirlo è l’eroe visto e rivisto da bambini, alle elementari, su VHS consumati a furia di mandarli indietro e avanti nelle sequenze più epiche; l’eroe stampato su bandiere, diari, quaderni; l’eroe che ci diceva nella veglia e nel sogno di non mollare mai, di combattere sempre e di rimanere sempre in piedi – e anche se noi non sapevamo esattamente che cosa volesse dire, presentivamo che fosse qualcosa di importante, da conservare gelosamente.
Bene, adesso lo sappiamo. E adesso il vecchio Rocky si ricongiunge magicamente – grazie all’intervento del figlio, o meglio sarebbe dire della reincarnazione, del suo amico morto – al giovane degli inizi, già arreso, picchiatore per conto di un mafiosetto dei sobborghi. Il vicolo cieco sembra il medesimo, ma la strada aperta qui è la comprensione della vita e del fallimento che essa sembra incarnare. Proprio quell’imbolsimento che Stallone aveva cercato di camuffare negli episodi precedenti, salendo in prima persona sul ring per dimostrare sempre e comunque di non essere finito, è qui vissuto invece con disincanto e serenità. Ed è questa, in fondo, la forza del film. Cercare nello spin-off di una mitologia inversa – quella di Creed, l’avversario-amico per definizione – lo scandaglio della parte più segreta dell’anima di Rocky: il personaggio vive con pienezza la fine, non ne è più amareggiato o sopraffatto.
UNA CARICA VITALE INESAUSTA
Adonis è la sua famiglia, in una circolarità che ci piace senza per questo rassicurarci: Adonis che conferisce nuova vita a queste strade così sporche e vere – la scena in cui corre con il corteo di motocross che impennano, e la processione si ferma sotto la casa del campione per un festoso omaggio, vale quasi da sola il film. Perché queste scene, che faranno sicuramente storcere il naso a più di uno spettatore colto e raffinato, recuperano e racchiudono in versione aggiornata il segreto che ci faceva stare svegli di notte: la carica vitale che Rocky possiede e che è in grado di donare a tutti i suoi ammiratori.
Così, anche noi insieme al figlio di Apollo sogneremo sempre di mimare i colpi del leggendario incontro, sovrapponendo il nostro braccio e il nostro corpo a quello del mito che continua e continuerà sempre a guidare – con tutta la sua naïveté, generosità, umanità, comprensione – il nostro gusto, le scelte, la disposizione d’animo nei confronti del mondo.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #30
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