Lo scambio. Se la mafia al cinema uccide il cliché
Primo lungometraggio per il regista Salvo Cuccia, con anteprima allo scorso Festival del Cinema di Torino. Un palermitano alle prese col tema della mafia. Tanto scontato, quanto difficile. La chiave sta nel superamento delle narrazioni consuete, tra romanzo criminale e documentario. E nell’intuizione geniale di un metaforico “scambio”.
UN ESORDIO PIRANDELLIANO
“Vi vedo affannati a cercar di sapere chi sono gli altri e le cose come sono, quasi che gli altri e le cose per se stessi fossero così o così”. Luigi Pirandello aleggia sul film come un imprescindibile faro. L’incarnazione letteraria dello spirito del luogo. E tornano in mente certi motivi chiave: l’illusione e il suo tradimento, le verità negate, le maschere nude e la fragile trama dell’esistenza. Sotto la trama niente, tutto, centomila forme precarie. E il racconto che diventa – come il palcoscenico, come il set – lo spazio della messa a nudo, il dispositivo rivelatore.
Volontario o meno che sia il riferimento, Lo Scambio di Salvo Cuccia – appena premiato al Festival Annecy Cinema Italien, dopo essersi guadagnato la vittoria all’VIII Festival di Ortigia – si colloca immediatamente sul piano filosofico pirandelliano, miscelando i generi e i registri: l’ironia e il grottesco, il tragico e il comico, l’onirico e il visionario, la cronaca nera e la fiction. Un cinema che precipita in un pozzo visivo spurio, contaminato. Immune ai cliché.
Ed è questa la sfida del palermitano Cuccia, noto documentarista, autore di diversi lavori per il programma Rai La Storia Siamo Noi, ma anche sperimentatore nel campo della videoinstallazione, qui al suo primo lungometraggio. Si tratta di dribblare i vari luoghi comuni, in fatto di narrazione sulla mafia: abbastanza complicato, nella pletora di produzioni cinematografiche, televisive, letterarie, che nei decenni si sono susseguite.
UN ALTRO FILM DI MAFIA. OLTRE IL GENERE
Cuccia fa un film di mafia, ma fa tutto il contrario di quel che si dovrebbe fare. Non c’è azione, non c’è violenza, non ci sono sangue, inseguimenti, scontri a fuoco. Il male – vero protagonista dell’opera – lavora oltre la scena. Qualche volta prende le fattezze di un teatro d’ombre, qualche altra si limita al rumore degli spari. È il fuori campo come distanza dalla crudezza del crimine e insieme come sua amplificazione. Il trionfo dell’ambiguo, l’inquietudine del non visto.
Non c’è trama, in senso stretto. Non c’è la chiarezza dei fatti, l’ossessione dei documenti: né immagini d’archivio, né nomi, né ricostruzioni meticolose, né cronologie fedeli. La vicenda si sgrana, sfugge, si avvita. Eppure, per scrivere il suo film, Cuccia ha voluto la consulenza del magistrato Alfonso Sabella. La scrittura narrativa ha allora un gancio forte con le vicende della mafia siciliana, ma rifiuta ogni stucchevole concessione al “romanzo criminale”: “Sono storie e fatti di cui mi sono occupato in prima persona a Palermo in quella Procura guidata da Gian Carlo Caselli”, ha raccontato Sabella sul sito del Centro Studi Pio la Torre. “Abbiamo cercato di ricostruire il mondo di quella Cosa Nostra senza farne un’agiografia, senza alcuna mitizzazione, questa è l’unica condizione che ho posto a Salvo. Gli dissi chiaramente, già in quella prima telefonata, pezzi di merda sono e pezzi di merda devono apparire”.
Infine, a saltare è il classico gioco delle parti, la divisione dei ruoli. Bianco e nero, buoni e cattivi, sommersi e salvati, figli dell’odio ed eroi in trincea. Lo schema binario va in pezzi. E qui sta l’intuizione geniale. Lo “scambio” del titolo non è solo l’equivoco fatale intorno a cui si costruisce la trama, ma è un’idea che permea l’intera narrazione, il meccanismo segreto rivelato alla fine. Tutto ciò che avevamo creduto di capire era falso. Era l’ombra invertita con la luce, la vertigine del dubbio, l’identità rovesciata. Che l’inferno possa covare anche là dove vediamo il bene? Una questione sociale e morale, in un film che procede per maschere e metafore, usate all’incontrario.
TRA CRONACA E IMMAGINAZIONE
La storia, dicevamo, è tutta vera. E si è svolta nel 1995: una quindicina di giorni, qui sintetizzati in 24 ore. Dentro, direttamente prelevati dalla cronaca del tempo, ci sono il boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, catturato nel giugno di quell’anno; la moglie Vincenzina Marchese, morta suicida, stritolata tra l’ingombro di un marito mafioso e l’infamia di un fratello collaboratore di giustizia; il figlio del pentito Santino Di Matteo, Giuseppe, sciolto nell’acido coi suoi pochi anni; Domenico Buscetta, gioielliere (l’unico di cui nel film si fa il nome), che pagò con la vita la parentela col super pentito Tommaso; il geometra ventenne Gianmatteo Sole, fratello di una ragazza fidanzata con un boss: innocente e martire per errore; i coetanei Marcello Grado e Luigi Vullo, morti ammazzati nel frastuono di un mercato. Tutta gente che c’è e che non c’è, come un’evocazione amara di cui mai si ha certezza reale. Tratteggiati, sottintesi, mai citati per davvero, in un gioco dell’anonimato che strizza l’occhio all’universale.
E poi c’è la fiction, il pretesto scenico, lo spazio del set che si intreccia con quello della verità in un valzer degli scambi e dei sospetti. Nel cast: un magnetico Filippo Luna nei panni di un ispettore di polizia: dal primo all’ultimo fotogramma si resta inchiodati al suo volto scolpito, enigmatico; la moglie dellì’ispettore, prigioniera di incubi e rimorsi, che ha la malinconia di Barbara Tabita; l’autista e braccio destro, Paolo Briguglia, perfetto nella resa di un individuo taciturno, irrisolto, sulla soglia tra ineluttabilità del male e consapevolezza del peccato; un ventenne – il promettente Masiar Firouzi – prelevato per sbaglio e protagonista di un lungo, sofferto e inutile interrogatorio, sfociato nell’orrore.
E infine un coro di sbirri (da Tommaso Caporrimo a Vincenzo Pirrotta, da Sergio Vespertino e Maurizio Maiorana), comparse di un mondo sotterraneo, buffo, grezzo, ferocemente normale. Un mondo in cui il cibo, ad esempio, torna spesso a condire il tempo: cibo come routine domestica, argomento di dialoghi spacconi, nota ruvida di colore e umile metafora, fino alla grottesca (e controversa) sovrapposizione tra il rimestio di un tegame di trippa al sugo e quello di una vasca colma d’acido.
PALERMO VISIONARIA
Tra le critiche mosse al film c’è la radicalità di questa trama ridotta all’osso, scarnificata, evaporata. Che si nega mentre si compie. Compensata da un’attenzione forte per i desideri, le ansie, i tormenti dei personaggi, subitotrasposti nei luoghi e nelle atmosfere. Insomma, poca scrittura e molta immagine. Con una certa abilità nel tenere quasi sempre la tensione, nonostante la struttura sfuggente.
E tutto passa da un uso anche eccessivo di movimenti focali, carrelli, steadycam, fino a rendere la percezione delle cose onirica, surreale. Con un occhio a maestri dichiarati come Kubrick, Ruiz, Lynch. Un fatto voluto, cercato, inclusi manierismi, bizzarrie, estetismi. È il caso ad esempio delle scene tra l’incubo e il sogno, girate nella casa dell’ispettore, in cui la moglie vede materializzarsi il proprio inconscio in forma di allucinazione.
Il punto è che il coraggio di Cuccia sta soprattutto nell’avere mescolato il film col teatro e la video arte, seguendo una logica tutta visiva. Un non racconto, con la sua sintassi anomala, che vive nella sintesi tra discorso morale e discorso estetico, tra il messaggio filosofico e la potenza di immagini che superano il reale, dopo averlo sezionato nella sua parte più cruda. Lungo i vicoli di una Palermo popolare, ingrigita, muta, sospesa, visionaria. Precipitata nella foschia del disonore.
Helga Marsala
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