Il meglio del 2016. La top ten del cinema
I film più belli di quest’anno sono serie tv, documentari, pièce teatrali, tributi ai generi narrativi e alla Hollywood dei tempi d’oro. Un cinema che, per mantenere la sua autonomia, si ibrida con gli altri linguaggi, sempre più orientato al reale in un mondo proteso verso la finzione.
JACKIE – PABLO LARRAÍN
Mentre le tv del globo continuavano a trasmettere la scena dell’attentato di Dallas, Jackie si toglieva il tailleur rosa intriso di sangue, sfilava i collant e faceva la doccia. L’ultimo straordinario film di Pablo Larraín, Leone d’Oro per la sceneggiatura a Venezia e fresco di Platform Prize, narra i giorni dell’assassinio di Kennedy dal punto di vista della sua vedova, Jackie Bouvier (Natalie Portman): impresa ardua se l’unico documento che la vede esprimersi e non solo mostrarsi (che icona sarebbe altrimenti?) è la visita guidata alla Casa Bianca a favore di telecamere, ricostruita fedelmente dal regista, con momenti di lirismo puro nella sovrapposizione tra realtà e finzione. Il ribaltamento dello sguardo e il passaggio dalla folla all’individuo non sono che il controcampo della vita, dimensione di solitudine assoluta da bilanciare col proprio ruolo istituzionale. È la lezione della Storia e di Larraín.
LIBERAMI – FEDERICA DI GIACOMO
Tra le sorprese di Venezia 73, miglior film della sezione Orizzonti. Il maligno non esisterà, ma di certo il male sì, e Padre Cataldo, uomo di Dio ma soprattutto di mondo, esegue gli esorcismi pure al telefono. Laddove la religione sconfina in superstizione, il cattolicesimo in stregoneria e l’ignoranza in paranoia, il suo intervento serve a portare equilibrio in condizioni di gravissimo disagio. I protagonisti sono talmente coinvolti nella presunta possessione da non curarsi della telecamera che li segue in maniera ravvicinata, e Federica di Giacomo coglie l’occasione per costruire un impianto visivo e narrativo molto più simile al cinema di finzione che a quello del reale; slegandosi con originalità dagli stereotipi da cinema horror che pure, sorprendentemente, sono presenti nell’immaginario dei posseduti. Potenza dei media o di Satana?
THE YOUNG POPE – PAOLO SORRENTINO
“Un film lungo dieci ore”, lo ha definito Paolo Sorrentino, una serie tv cui ha voluto portare in dote il cinema, presentata in anteprima a Venezia 73. The Young Pope è prima di tutto un bagno visivo nella magnificenza di Roma e nei chiaroscuri modulati dal potere temporale della Chiesa, sequel magnificante de La Grande Bellezza. Già nella sigla il Giovane Papa incede mistico sulle note da Nobel di All Along the Watchtower, al passo di un meteorite travestito da cometa. Jude Law interpreta Lenny Belardo che impersona Pio XIII, un papa di appena 47 anni (l’età di Sorrentino, prima di tante analogie con la biografia del regista). Lenny fuma in quasi ogni scena – vizio di Ratzinger, fonte di ispirazione nella costruzione del personaggio di Belardo –, ma che si tratti di citazione o trasgressione, il profilo di Jude Law con la sigaretta accesa è comunque perfetto per locandine e trailer. Il potere è conoscenza – lo rivela il napoletano e saputo Cardinale Voiello (Silvio Orlando) – e Paolo Sorrentino e Pio XIII questo lo hanno capito bene.
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT – GABRIELE MAINETTI
Cosa è successo a poco meno di un anno dall’uscita del cult di Mainetti che ha sbancato ai David di Donatello? Su Youtube la versione di Un’emozione da poco cantata da Luca Marinelli ha raggiunto il numero di visualizzazioni di un videoclip di successo, esaudendo il desiderio di viralità dello Zingaro. Mentre Enzo Ceccotti, il primo super eroe romano di epoca contemporanea, è uscito dagli schermi per sostenere la campagna elettorale di Virginia Raggi. Come Claudio Santamaria si intende, e per sfatare ogni dubbio ha cantato Nun te reggae più di Rino Gaetano (altro suo ruolo memorabile) indossando un cappellino che celava la calvizie del personaggio del set in corso (Brutti e Cattivi di Cosimo Gomez) e non il passamontagna lavorato a maglia da Ilenia Pastorelli. Gabriele Mainetti è un regista profetico. Sette anni fa inserì in sceneggiatura le hit di Anna Oxa e Loredana Berté come divertissement lirico/trash, che infatti nei veri giorni delle tenebre ritroviamo come giurate del talent di Maria de Filippi.
S IS FOR STANLEY – ALEX INFASCELLI
Se passeggiando per le campagne della Ciociaria vi dovesse arrivare in faccia un post-it con un elenco di cose da fare siglato S., sappiate che S. sta per Stanley. Alex Infascelli racconta la storia di Stanley (Kubrick) ed Emilio D’Alessandro con la secchezza e il rispetto che si deve ai miti e agli uomini. Un sodalizio, quello tra il cineasta e il suo autista, basato sulla mancanza di interessi in comune e la dedizione totale al lavoro. Stanley non sapeva guidare, Emilio non nutriva alcun interesse per il cinema, Stanley era nato per dare ordini, Emilio per eseguirli. Un ingranaggio psichico di precisione più che un’amicizia, da cui è scaturita la storia incredibile che da Londra arriva fino al tappeto di Shining, passando per Cassino, dove cimeli degni delle aste più patinate sono trattati come oggetti di uso quotidiano. Seppure attraverso il cinema del reale, anche stavolta Infascelli non si discosta dall’interesse descrittivo per le zone d’ombra dell’animo umano. Un taglio autoriale che gli è valso il David di Donatello come miglior documentario e la nomination nella cinquina stilata da Wenders agli EFA.
CAFÉ SOCIETY – WOODY ALLEN
Puntuale come la dichiarazione dei redditi arriva ogni anno il film di Woody Allen, talmente allenato a scrivere e dirigere da avere maturato una fluidità narrativa che vive di vita propria, a metà tra pilota automatico e intelligenza artificiale. Café Society è un tributo al cinema degli Anni Trenta, ai lustri e gli inganni della prima Hollywood, che Vittorio Storaro ha deciso per questo di inondare di una luce dorata e irresistibile allo sguardo. L’atmosfera da Grande Gatsby culla prima le illusioni e poi i rimpianti di Bobby (Jesse Eisenberg) e Vonnie (Kristen Stewart), un tempo amanti felici e incoscienti, le cui esistenze compiute e mature si appagano nelle fantasticherie e nella dimensione dell’attesa, traendo linfa vitale dalla nostalgica libertà che solo il pensiero del futuro possiede.
LA LA LAND – DAMIEN CHAZELLE
Ormai si entra in sala per assistere al palinsesto in movimento del Canone Occidentale visto che le trame e i generi sono superati. La La Land per esempio non è un musical, semmai un omaggio al genere più a stelle e strisce che esista, perfetto manifesto postmoderno. E se perfino Spike Jonze, nell’ultimo spot della Kenzo, cita se stesso vent’anni prima (Weapon of Choise, Fatboy Slim) sostituendo con la danza folle di Christopher Walken quella da posseduta di Margaret Qualley, ciò dimostra che la differenza tra il prima e il dopo, l’originale e la citazione, è proprio il tempo trascorso, che a Hollywood significa aver maturato una tecnica talmente perfetta e consapevole da divenire spietata. E infatti, l’epoca aurea, quella dei balli spensierati, delle coreografie senza sottotesti, è proprio il momento in cui i protagonisti Mia (Emma Stone) e Ben (Ryan Gosling) sognano la vita per ciò che potrebbe essere. L’Audience award for best feature film ricevuto al Toronto Film Festival rende giustizia alla Coppa Volpi – premio di consolazione rimediato a Venezia.
MONTE – AMIR NADERI
Un film semplice ma potentissimo, dall’epilogo visionario. Ambientato nel Medioevo, ma in realtà fuori da un tempo e da uno spazio specifici, con i protagonisti che lottano letteralmente contro una montagna che oscura il sole e rende quindi sterili i terreni. La volontà di conservare le proprie radici e di restare nel luogo d’appartenenza al punto da sfidare una roccia evoca i conflitti contemporanei in corso, e la situazione mediorientale in primis. Stavolta nella lotta natura vs cultura i concetti di bene e di male sono completamente ribaltati, a dimostrazione che, appunto, Amir Naderi ha costruito un puro e perfetto impianto simbolico, da cui lasciarsi meravigliare. Premio Jaeger-LeCoultre Glory to the Filmaker a Venezia 73.
INTO THE INFERNO – WERNER HERZOG
Come nel film di Naderi, anche in questo caso una riflessione sul senso della vita travestita da documentario. Ciò che non è riuscito a Terrence Malick, cioè creare un parallelo tra cosmo e umanità, trova invece una forma compiuta nel magnifico Into the Inferno prodotto da Netflix e presentato nella cornice della Festa del Cinema di Roma. La forza ancestrale dei movimenti lavici e la potenza visiva del mare di fuoco sono un modo per raccontare eventi naturali ma soprattutto umani, in un confronto poco neutrale e politicamente non corretto. Ed è la stessa voce off di Werner Herzog, in un epilogo pirotecnico, a ricordarci che l’uomo è una creatura che si impegna ad andare avanti come può, ma la cui esistenza non è contemplata dalla lava che gli ribolle sotto i piedi.
JUSTE LA FIN DU MONDE – XAVIER DOLAN
Xavier Dolan ha solo 27 anni, ma nel suo palmares ci sono già un Premio della Giuria e un Gran Prix al Festival di Cannes, quest’ultimo assegnatogli proprio per Juste la fin du monde. I temi della famiglia e dell’omosessualità tornano nel suo sesto lungometraggio tratto da una pièce di Jean-Luc Lagarce. Finita l’era delle trame inizia quella del pensiero e delle inquadrature d’autore, in cui le ellissi temporali quasi scompaiono, dipanando la temporalità della narrazione in modalità reale: cinema teatro e vita vera non sono mai stati così vicini. Louis (Gaspard Ulliel), scrittore di successo, torna a casa dopo 12 anni per annunciare una notizia tragica, ma la grave nevrosi collettiva in cui versa la famiglia non gli permette di parlare con franchezza e lascia intuire il perché della fuga giovanile. Primissimi piani asfissianti, fuori fuoco pittorici, nessuna incertezza nella direzione di un cast stellare francofono (Marion Cotillard, Vincent Cassel, Léa Seydoux). Dolan dimostra di essere molto meno enfant e sempre più prodige.
Mariagrazia Pontorno
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