Cinema. Il Neorealismo secondo Damiano Damiani
Regista tra i più conosciuti del panorama italiano a cavallo fra gli Anni Settanta e Ottanta, Damiano Damiani ha saputo ricorrere al linguaggio neorealista per raccontare la mafia siciliana. E non solo.
Protagonista assoluto del cinema italiano negli Anni Settanta e Ottanta, Damiano Damiani (1922-2013) non ha forse avuto il riconoscimento che meritava un autore del suo livello. A partire infatti da Il giorno della civetta (1968), tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia, ha saputo sviluppare in maniera originale, personale e innovativa il filone di impegno civile che parte da noi almeno con Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi e i cui vertici assoluti sono rappresentati da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1971) di Elio Petri e da Il caso Mattei (1971) dello stesso Rosi.
Damiani impiega così uno strumento affilato e raffinato, elaborato da generazioni di registi e narratori a partire dalla stagione del Neorealismo, per “dire” – di fatto, per la prima volta – la realtà della mafia siciliana. E lo fa seguendo la lezione di Sciascia, per il quale “scrittori e artisti, poeti e pittori, attraverso la particolarità e le particolarità della Sicilia, hanno raggiunto l’universalità” (Come si può essere siciliani).
UN CINEMA ALLA BACON
Ciò che colpisce nel suo cinema elegante e crudele – in film essenziali come Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971), Perché si uccide un magistrato (1974), Io ho paura (1977) – è proprio la capacità di attrarre e restituire questa “universalità”, posizionando l’uomo-protagonista (di volta in volta: Franco Nero, Gian Maria Volonté, Giuliano Gemma; e più tardi sarà Michele Placido) al centro di una vicenda che non comprende, di un paesaggio desolato e disumanizzato, sottoposto all’azione di forze oscure e implacabili. Lo spazio della rappresentazione è una quinta assolata e deserta, degna di un quadro di Bacon – come lo sporco crocicchio cittadino del finale di Perché si uccide un magistrato, come il cinema vuoto di Io ho paura o come la campagna spoglia, aspra e contorta in cui si conclude il dramma di Un uomo in ginocchio.
Eppure, lo scopo di Damiani è sempre stato quello di mostrare e dimostrare come quest’uomo solo – che è tutti noi – sia in grado di resistere e di non piegare la testa; possa combattere, anche soccombendo, contro un dispositivo immensamente più grande e potente di lui, contro un intero sistema di relazioni e un mondo di rapporti economici, testimoniando una luce.
Ciò che interessa al regista è proprio rintracciare e svolgere questa idea di umanità, che si dispiega umilmente sotto il sole accecante o negli angoli bui delle stanze del Potere. E il suo tema di fatto unico è proprio il confronto con questo Potere che – nel Ventennio di Girolimoni, il mostro di Roma (1972, magistralmente interpretato da Nino Manfredi), così come nell’attualità cruda dei capolavori Anni Settanta e de La piovra (1984) – oscuramente muove le fila della collettività e strozza la crescita di un’intera nazione, ma che può essere sconfitto o quantomeno ridimensionato solo attraverso la ricerca paziente, e la pratica quotidiana, della verità.
LA METAFORA DELLA SICILIA
L’opera di Damiani è infatti un’inesausta indagine del carattere italiano (attraverso la lente – e la metafora – della Sicilia), dei suoi vizi e delle sue altezze. La viltà e il coraggio; la meschinità e la grandezza; l’accettazione delle condizioni date e la volontà di trasformare, anche in maniera impercettibile, ciò che si ha di fronte. Perché, come diceva Sciascia, “la Sicilia, forse l’Italia intera […] è fatta di tanti personaggi simpatici cui bisognerebbe tagliare la testa”.
Dunque, anche un piccolo film come Un uomo in ginocchio (1979), con il suo confronto spietato e angoscioso tra il barista ed ex-ladro Nino Peralta (Giuliano Gemma) e il killer da quattro soldi Platamona (Michele Placido), ripropone l’eterno confronto-conflitto nazionale tra dritti e fessi: il campo d’azione e di interpretazione per Damiano Damiani è sempre quello della divisione di un’intera società tra queste due categorie – che sono in realtà non solo due tipi umani, ma due forme di vita e due sistemi di valori inconciliabili. Il suo interesse è quello di tendere costantemente, e contro ogni realismo o pragmatismo, verso un ideale di evoluzione dell’Italia e del suo tessuto culturale, sociale, civile, politico.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #33
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