Europa ’51. O la forza della compassione
Girato nel 1952 e mai valorizzato del tutto, il film di Roberto Rossellini con protagonista Ingrid Bergman pone l’accento su una questione di immutata attualità: il coraggio di fronteggiare le convenzioni sociali per affermare nuovi modelli di esistenza.
Spiritualità, salvezza, deviazione. Irene, la protagonista di Europa ’51 (1952) di Roberto Rossellini (secondo capitolo della “trilogia della solitudine”, dopo Stromboli, terra di Dio e prima di Viaggio in Italia), viene scagliata dalla morte del figlio Michel in un mondo che conosce di fatto per la prima volta, in una realtà ostile e dura che però alimenta il suo desiderio di sapere e di amare. Questo movimento, questa spinta è una deviazione quasi soprannaturale dal corso stabilito della propria vita, dato una volta per tutte, e dalle regole stringenti dell’alta borghesia internazionale a cui la donna appartiene per censo. Ed è sempre più inaccettabile e insostenibile dunque – per “gli altri” (il marito George, i parenti, gli amici).
È però un movimento irresistibile, orientato e rivolto con sempre maggiore consapevolezza, coerenza e insistenza verso gli ultimi. È tanto più potente e sconvolgente, perché avviene al di fuori degli schemi che racchiudono la società, la sua azione e il suo pensiero: l’ideologia politica, la religione, lo Stato, le istituzioni del controllo (poliziesco, sanitario). La forza che muove il movimento di Irene è la vita come compassione, come pietà, come capacità di patire insieme a chi soffre – e come scoperta continua di tale capacità, del segreto che essa racchiude (“se non sei più legato a niente, sei legato a tutto”).
In una delle sue opere più sottovalutate in assoluto (e non poteva essere diversamente), Rossellini riesce a rendere man mano più scarna, più essenziale, e per questo più rilucente la figura di Ingrid Bergman. Isolandola, stagliandola e inserendola in scenari inediti (la fabbrica, la borgata, l’ospedale psichiatrico); facendo percorrere a questo personaggio le strade multiformi della vita, con tutti i pericoli, le insicurezze, le frustrazioni e le incomprensioni che essa comporta; mostrando in ogni scena come questa sua scelta consista in definitiva in un continuo “sporgersi”, senza rete, senza pregiudizi, senza preconcetti.
VIETATO TRASGREDIRE
È questa l’unica forma di realismo, in grado di costruire uno stile unico annullandolo. È questa l’esplorazione della realtà – senza orpelli, senza infingimenti, senza scorciatoie, senza finzioni – come sofferenza, come dolore, come amore nudo. Anche noi spettatori riusciamo così a vederla come per la prima volta, con occhi rinnovati, e siamo posti ancora e ancora davanti alla scelta – tra l’indifferenza e il coinvolgimento totale, tra la condivisione e la distanza irreparabile. L’imbarazzo di George di fronte a un comportamento incomprensibile, addirittura doloroso, a un allontanamento così siderale rispetto ai gesti e alla “postura” che sarebbero richiesti dal prestigio e dalla posizione sociale, dice quanto il potere della società consideri (il giudice e l’avvocato, custodi dell’ordine a un certo punto esprimono in maniera esplicita questo concetto) pericoloso un esempio di questo tipo: trasgredire alle regole comunemente accettate, condivise, è già di per sé un crimine punibile con l’isolamento e la reclusione, qualunque sia il motivo all’origine della trasgressione. Vuol dire che la società impedisce automaticamente qualsiasi deviazione rispetto alla costruzione collettiva, al recinto di norme e convenzioni imposto? Questa è la domanda, abbastanza atroce, che Rossellini si e ci pone, all’inizio del XXI secolo come a metà del XX.
UNA NUOVA REGOLA
La vita esemplare di questa santa contemporanea, e la vicenda narrata da questo cinema sempre contemporaneo, per sempre contemporaneo e che nutre interesse esclusivo per la verità, interrogandola costantemente, ci dicono ancora una volta che l’unico cambiamento possibile – no, non cambiamento ma “miglioramento della propria natura” – consiste nell’adottare senza compromessi una nuova, radicale “forma di vita”, una regola che sia modello di esistenza in grado di generare un intero sistema di valori: “È chiaro che Francesco ha qui in mente qualcosa che non può semplicemente chiamare ‘vita’, ma che nemmeno si lascia classificare soltanto come ‘regola’ […] è, in verità, il contrario esatto di un’inutile ridondanza: i due vocaboli sono messi in reciproca tensione, per nominare qualcosa che non si lascia nominare altrimenti” (Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Neri Pozza, Vicenza 2011, p. 125).
– Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #35
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