Paesaggi urbani e distopia. Sul grande schermo
Il futuro sembra essere sempre più popolato di cattivi presagi se si guarda alle pellicole che raggiungono le sale cinematografiche. Una tendenza riscontrabile anche nelle ambientazioni urbane evocate da questi film, non troppo distanti, nell’aspetto, dalle città che oggi costellano alcune aree del mondo.
La prima volta che ho visto Looper (Rian Johnson, 2012), più della vicenda narrata, uno degli aspetti del film che più mi sembrava innovativo era il modo in cui gli spazi erano trattati: ancor più, il modo in cui il tempo – il tempo nel suo trascorrere e nel suo tornare indietro, il tempo dell’esistenza del protagonista Joe (Joseph Gordon-Levitt/Bruce Willis) che si avvita e riparte e si inceppa – venisse spazializzato nella città.
Non è un caso forse che la “chiusura del loop”, del cerchio, avvenga sempre e comunque in campagna, in un paesaggio naturale extra-cittadino (come del resto è stato per Interstellar di Christopher Nolan, film totalmente e significativamente rurale). Così come la casa dove lo “Sciamano” bambino cresce insieme alla madre Sara è una fattoria del Kansas (e qui permane certamente l’eco della mitologia di Superman).
Ciò che però questo blockbuster filosofico – tra i primi di una serie che comincia a essere lunga e nutrita, fino al recente Arrival (Denis Villeneuve, 2016) – riesce principalmente a trasmettere allo spettatore è il senso intimo, interiore di una desolazione umana, trasferita sul piano fisico dei luoghi. Analizziamo per esempio la Kansas City del 2044 immaginata e prefigurata dal film: un miscuglio di elementi “futuristici” prelevati da Shanghai e San Francisco, manifesti olografici pervasivi e onnipresenti ed edifici industriali abbandonati, occupati da squatter e poveri: le insegne luminose si sovrappongono dunque ai falò, e di notte i profili dei grattacieli si sommano agli scheletri dei palazzi senza più funzione, riusati e riadattati.
DISTOPIE SOTTILI
Ancora più impressionante è la scena centrale di Looper, che illustra la vita di Joe tra i due estremi temporali della narrazione, il 2044 e il 2074: in questo caso il livello personale si salda strettamente con quello collettivo e simbolico, perseguendo strategie decisamente raffinate. Intanto, Joe con tutti i soldi guadagnati nella sua carriera da killer è sempre solo; si aggira nelle megalopoli del futuro, ma lo sguardo è costantemente rivolto altrove; il segnatempo conteggia gli anni che passano, i nuovi crimini commessi, lo sperpero esistenziale. Questo spreco si riverbera anche negli spazi urbani ritratti, nel paesaggio antropizzato e nella sua luce (fredda, glaciale, disumanizzata): il sole tramonta ventitré anni dopo, nel 2067, dietro la cima di un altissimo palazzo.
Ciò che una scena del genere ci dice – oltre al fatto che il futuro è un luogo spiacevole, sgradevole, ostile, inospitale – è che la distopia può essere fatta intravedere anche in modi sottili, e non solo con effetti speciali roboanti.
FINZIONE E REALTÀ
Proseguiamo con un altro esempio, il remake di Total Recall (2012). Se l’originale di Paul Verhoeven (1990) era innovativo per il modo in cui restituiva la colonia marziana, il film di Len Wiseman, pur con tutti i suoi difetti strutturali e con la pesantezza delle troppe scene d’azione, si segnala proprio per il modo in cui tratta il contesto fisico in cui il protagonista Douglas “Doug” Quaid (Colin Farrell) conduce la sua vita frustrata e inappagata (le vicende si svolgono in questo caso interamente sulla Terra, rimanendo dunque in parte più aderenti al racconto di Philip K. Dick, We Can Remember It For Your Wholesale).
Siamo alla fine di questo secolo e, in seguito a una guerra chimica, solo due aree del pianeta sono ancora abitabili, l’UFB – Unione Federale di Britannia e la Colonia; ogni giorno, masse di lavoratori sfruttati raggiungono l’UFB con il sistema di trasporto della Discesa, passando dal centro della Terra. Che cosa vede Doug quando si affaccia dal suo “balcone”? Agglomerati di case, casupole e appartamenti l’uno sull’altro, incistati l’uno nell’altro; lemuri di case che erano sicuramente qualcos’altro, e in procinto di diventare qualcos’altro; casupole e baracche; architettura “brutalista”; tubi, fili, passaggi e sottopassaggi; lamiere, piani inclinati, ferro, vetro, plexiglas, materiali ancora sconosciuti dall’apparenza al tempo stesso ipertecnologica e arcaica.
In fondo, se ci pensiamo, è uno scenario e un ecosistema urbano che – oltre a rimandare all’archetipo di Metropolis – non è poi così diverso da come appare questo presente dal punto di vista fisico nelle megalopoli asiatiche, o in alcune zone nel nostro Sud.
– Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #36
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