Christopher Nolan e Dunkirk. We Shall Never Surrender
Christopher Nolan ha firmato un altro grande film. “Dunkirk” racconta una battaglia, ma in realtà descrive uno dei momenti chiave della nostra modernità. E lo fa, non a caso, con una pellicola che è di fatto priva di protagonisti.
Il molo – il mare – il cielo. Il tempo: tre durate che collassano l’una nell’altra. In Dunkirk, Christopher Nolan individua l’origine esatta del nostro tempo, del nostro presente. Questo punto di inizio coincide, non a caso, con la fine catastrofica dell’epoca precedente.
La Seconda guerra mondiale – e in particolare la fase del conflitto in cui tutto sembra perduto per sempre, la fase della sconfitta e dello shock profondo che segue a essa – è la cesura fondamentale, è questo strappo, questo interstizio che improvvisamente crea spazi e gesti inediti: gli oggetti sparsi, i soldati che vagano sulla spiaggia desolata, il personaggio sconosciuto che per disperazione si tuffa in mare pur di allontanarsi dalla rovina.
Nelle tre durate (una settimana, un giorno, un’ora), intrecciate e scandite costantemente dal ticchettio dell’orologio che impossibilmente accelera e rallenta seguendo il ritmo della narrazione, Dunkerque diventa il luogo novecentesco da cui fuggire e a cui al tempo stesso non si può sfuggire; il centro inevitabile di ogni evento, di ogni battaglia, di ogni scelta morale e di ogni azione che impegnerà non solo questi uomini anonimi in divisa – ma anche ogni epoca e ogni presente del futuro.
SUONI E RIMANDI
In una guerra cinematografica del tutto inedita, che – a differenza di ogni esempio precedente – è vissuta e combattuta esclusivamente da suoni, luci e sensazioni corporee di claustrofobia e impotenza, attesa snervante e sfibrante, sproporzioni inconcepibili tra le psicologie individuali e il peso mostruoso di ciò che sempre sta per arrivare, per essere scaricato, per distruggere e dilaniare, saltano fuori paralleli inattesi. In fondo, il mondo di Dunkirk è uno sviluppo magicamente intenso del nucleo centrale di The Wall dei Pink Floyd e di Roger Waters: il suono crudele e ossessivo dei caccia tedeschi in picchiata, nessun posto dove nascondersi, soldati allo sbaraglio sacrificati, Vera Lynn che canta “We will meet again / some sunny day” e il coro di Bring the Boys Back Home!. Questo riportare tutti a casa è il desiderio potentissimo che muove l’intera scena: ogni individuo è agito da questa spinta, da questa tensione.
LE ARMI DELLA SOPRAVVIVENZA
E il fatto che la “Patria” (come riconosce Kenneth Branagh con le lacrime agli occhi), la salvezza sia rappresentata proprio dalla quotidianità minima e imprevista delle tante barche da diporto – usate in un contesto del tutto estraneo a esse come quello bellico – racchiude un insegnamento importante e prezioso per noi stessi e per la nostra contemporaneità. Nel momento più buio, nell’ora più oscura, quando ogni risorsa sembra esaurita e l’unica opzione in campo pare essere la resa, contro ogni previsione e logica il modo per continuare a sperare e a lottare consiste sempre nell’alterazione radicale della prospettiva, del punto di vista. Nell’impiegare cioè come arma e strumento di sopravvivenza ciò che era inconcepibile, fino a un attimo prima.
Solo questa operazione al tempo stesso delicata e traumatica permette di sbloccare il tempo, di sbrogliare la matassa del disastro e di riavviare la Storia. Il primo attimo dell’epoca nuova può essere vissuto proprio a partire da questa consapevolezza: “E vi pare poco?”, risponde un vecchio al giovane soldato che si vergogna quasi della sopravvivenza sua e dei compagni come unico risultato conseguito. A partire da questa sopravvivenza è possibile riprendere il filo. Questo ci dice un film corale, quasi senza protagonisti, in cui la morte è una forza senza nome che riordina differenze, approcci, disposizioni delle singole anime. Portando a compimento un percorso iniziato con Memento e passato attraverso Inception e Interstellar, Nolan aggancia le esistenze finzionali alla nostra esistenza di spettatori, dicendoci che questo tipo di percezione non è un gioco sofisticato ma ci riguarda, e ci chiama in causa, tutti.
We Shall Never Surrender.
‒ Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39
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